Francesco Cilli con la sorella Marta, di 10 anni, con sindrome di Down
Francesco Cilli con la sorella Marta, di 10 anni, con sindrome di Down

I siblings, fratelli dei bimbi con disabilità

Si chiamano “siblings”, crescono in famiglie in cui l’amore e la dedizione al figlio meno fortunato sono totali. In casa devono dare pochi problemi, essere sempre di sostegno. Un ruolo difficile che spesso, però, li arricchisce. E li aiuta ad avere più coraggio e leggerezza

«Marta, mia sorella, è nata con un cromosoma in più. Ho iniziato a fotografarla nel 2015, durante un’estate in famiglia. Tornando a casa e riguardando le immagini sul pc ho capito che lei era la protagonista assoluta delle mie foto e che avevo iniziato un lavoro, forse il più importante della mia vita». Francesco Cilli è l’autore degli scatti di questo servizio e la bambina ritratta nei gesti della sua vitale quotidianità è sua sorella Marta di 10 anni, con sindrome di Down. Un fermoimmagine inizialmente inconsapevole su una relazione che spesso rimane nell’ombra.

Ma cosa significa crescere in una casa in cui c’è una persona con una disabilità?

«Molto dipende dalle risorse economiche e culturali della famiglia, dagli aiuti di cui dispone e dalla complessità della disabilità» spiega Laura Radaelli, coordinatrice dell’associazione Diesis Onlus (associazionediesis.org) e terapeuta familiare che tiene gruppi per “siblings”, termine inglese generico ma che in italiano indica i fratelli e sorelle di persone disabili. «Il tratto comune è che sono investiti di un carico di accudimento e di aspettative da parte dei genitori molto importanti, fin da quando sono piccoli. E i loro sentimenti sono talvolta ambivalenti, perché l’affetto per il fratello disabile e il desiderio di prendersene cura convivono con la pressione di dover essere sempre bravi in tutto per non dare ulteriori problemi in casa. E con il senso di colpa, soprattutto quando crescono e vorrebbero lasciare il nucleo familiare ma si percepiscono come “traditori” e faticano a legittimare la loro naturale spinta alla libertà». Sono le emozioni che affiorano nei protagonisti delle storie che abbiamo raccolto: Francesco, Alice e Margherita. Che nel faticoso percorso quotidiano con un fratello disabile hanno saputo anche coltivare la straordinaria bellezza dell’empatia, del coraggio e della leggerezza.

Marta mentre va a scuola
Marta mentre va a scuola

«Quando ho visto Marta per la prima volta mi è sembrata la più bella di tutti i fratelli» 

Francesco Cilli, 27 anni, fotografo. Sua sorella minore è affetta da sindrome di Down

«Sono il primogenito di una famiglia numerosa, siamo 6 tra fratelli e sorelle, e Marta è l’ultima arrivata. Le ecografie che mia madre ha fatto in gravidanza avevano evidenziato la probabilità di una sindrome di Down. All’epoca avevo 17 anni, sapevo molto poco di che cosa significava. Ma non temevo il cambiamento, la nostra famiglia aveva cambiato già forma diverse volte, si era reiventata di fronte alle nuove nascite, come una sorta di organismo adattabile. E poi ero un adolescente, vedevo che c’era tensione in casa ma tendevo a rimuovere. Ricordo benissimo l’sms di papà, ero al mare con gli amici, mi scriveva solo: “È nata Marta”. “Ma ha la sindrome di Down o no?” gli ho chiesto io. Mi ha risposto: “Sì”. Mi sono alzato dall’ombrellone e mi sono buttato in acqua. Ho nuotato a lungo e poi sono rimasto in silenzio per ore, ero pieno di rabbia. Quando però l’ho vista per la prima volta in ospedale mi è sembrata la più bella di tutti i miei fratelli neonati, in genere i neonati non mi piacciono per niente, anche se aveva la lingua unpo’ fuori ed era collegata ai macchinari, perché appena nata aveva subito un’operazione al cuore. Vivendo con Marta abbiamo scoperto giorno dopo giorno che era una bebé normale: piangeva, mangiava, cresceva. Col tempo ha imparato a fare tutto, parlare, camminare, ridere, soltanto che lo faceva un po’ dopo gli altri. Qualche volta le persone per strada ci fissavano con uno sguardo di pena, e io all’inizio ero imbarazzato, ma più conoscevo Marta più diventavo capace di rispondere al loro sguardo. Perché la verità è che anche io all’inizio provavo quel senso di pena per lei, ma vedendola crescere così allegra e ostinata è cambiato anche il mio sguardo su di lei. Ho iniziato ad ammirare la sua tenacia di imparare, la sua affettività che non è indiscriminata, ma rivolta alle persone che le piacciono. E quello che avverto è che mi ama in un modo che mi viene da definire “senza veli”. Lei mostra i suoi sentimenti nella loro nudità: l’amore, la rabbia. Non ha filtri, è come un cuore puro. Le emozioni talvolta sono contradditorie, magari c’è qualcosa che non va con una persona ma tendiamo a non dirglielo, o viceversa siamo incapaci di dirle che le vogliamo bene: ecco, lei invece dice tutto. È persino maleducata alle volte, perché se una persona non le piace si vede. Marta è ovviamente un impegno costante per tutta la famiglia, ci sono le attività a cui accompagnarla e nessuno si può sottrarre, però mi rendo conto di quanto la sua presenza riempia la casa. Mi piace passare il tempo con lei e fotografarla, perché in una foto riesci davvero a catturare il sentimento di quel momento proprio per la sua assenza di filtri. Ma forse lo faccio anche per dire agli altri, e magari a un Francesco 17enne come il me di allora che aspetta un fratello disabile, di non andare in paranoia. Sarà tutto diverso, ma non c’è da avere paura».

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«Arianna non cammina e non parla. Alla mia nascita la famiglia era già assestata su di lei: io dovevo essere all’altezza»

Alice Pareyson, 26 anni, collabora con una casa editrice. Sua sorella maggiore è affetta da tetraparesi spastica

«Mia sorella disabile ha 30 anni e io e il mio gemello 26, ma lei non è mia sorella più grande: è sempre stata la “bambinona” di casa. Arianna, a causa di un problema al parto, ha una tetraparesi spastica, una disabilità importantissima che le impedisce qualunque movimento volontario. Non cammina, non mangia da sola, non mastica, non parla e le sue capacità cognitive sono del tutto compromesse. Ma tra noi esiste una comunicazione che va oltre le parole, lei adora la musica e in qualche modo ci riconosce anche se non sa chi siamo e l’amore passa attraverso di noi comunque. Io e mio fratello siamo nati dopo che la famiglia si era già assestata su di lei: mia madre, che era stata una neuroradiologa con una carriera promettente, aveva smesso di lavorare per occuparsene a tempo pieno. Una scelta consapevole, come quella di fare altri 2 figli. Non posso dire che non siamo una famiglia felice, ma certo non siamo una famiglia come le altre. Fin da bambina ho sentito che dovevo essere all’altezza e anche di più, sempre brava a scuola, aiutare in casa e non fare troppi capricci. I miei compagni andavano in montagna nel fine settimana mentre per noi le vacanze sono sempre state 3 settimane al mare a Forte dei Marmi in un hotel che accoglieva la nostra ingombrante famiglia ed era già tanto. Abbiamo sempre avuto un aiuto ma una persona da sola non riesce a occuparsi di Arianna quindi se la babysitter non era disponibile io e mio fratello “signorsì, tutti ai posti di combattimento”. Molte volte ho provato rabbia e ci sono stati diversi momenti difficili perché quando sopisci le frustrazioni poi esplodi. A quasi 20 anni sono scappata di casa per una settimana, mi sentivo chiusa in gabbia. Però, davvero lo dico senza retorica, io amo la mia famiglia e nella nostra storia ci siamo fatti anche mille risate e abbiamo vissuto bellissimi momenti. Mi reputo una persona integra e solare. Se non avessi avuto mia sorella non avrei lo stesso humour e la stessa leggerezza».

«Mi sentivo a disagio se Mario faceva scenate per strada, ora ho imparato a fregarmene»

Margherita Basso, 26 anni, lavora in una
agenzia di comunicazione. Suo fratello minore
soffre di autismo

«Mario è stato adottato quando io avevo 7 anni e mia sorella 5. Lui è arrivato in famiglia che ne aveva 2 e nemmeno i miei genitori sapevano che avesse problemi, proveniva da un orfanotrofio in Albania e nessuno si era mai veramente occupato di lui. Mamma e papà si sono accorti subito che qualcosa non funzionava: tendeva a ripetere i gesti in maniera ossessiva, fissava per ore un punto della parete e faceva fatica a relazionarsi. La diagnosi è giunta presto ed è stata brutale: autismo molto grave. Mia madre ha smesso di lavorare e si è dedicata a tempo pieno al benessere di Mario: la logopedista, le attività, lo sport. Noi eravamo piccole, non ci rendevamo conto, la consapevolezza è arrivata col tempo, però ricordo che ogni piccola conquista di Mario, come quando ha iniziato a mangiare col cucchiaio, era una festa anche per noi. Lui non articola le frasi ma dice le parole necessarie per esprimere quello che desidera, sa farsi capire. E noi l’abbiamo sempre portato ovunque, al ristorante, nei viaggi: molte volte è stata una fatica e una sfida perché lui magari iniziava a urlare a cena e tutti ci guardavano. Ci sono voluti anni di piccole tappe ma l’estate scorsa siamo addirittura riusciti a fare un viaggio in America tutti insieme. Non nego i tanti momenti difficili, soprattutto al liceo, quando io e mia sorella dovevamo studiare e lui gridava per casa, e da piccola mi sentivo terribilmente a disagio quando lui faceva scenate per strada. Ora ho imparato a fregarmene del giudizio della gente e penso che se non fossimo stati in grado di sopportare quegli sguardi non saremmo dove siamo ora. Ci sono ancora i giorni sì e i giorni no, ma anche a livello fisico siamo vicinissimi. Da piccolo non sopportava il contatto, ora ci abbraccia e si addormenta addosso a noi quando guardiamo un film. E poi Mario è bravissimo negli sport e continua a fare progressi, frequenta anche gli operatori di una cooperativa con cui sta sviluppando un percorso di autonomia. Mi considero fortunata per tanti motivi: perché so che non tutte le persone con la malattia di mio fratello riescono a fare gli stessi progressi che ha fatto lui. Perché i miei genitori, nonostante le difficoltà, hanno permesso a me e mia sorella di fare esperienze per conto nostro, anche all’estero. E perché la vita con Mario mi ha insegnato molte cose preziose, in cima a tutte l’empatia».

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