Joshua Jackson

Joshua Jackson è un seduttore in “Attrazione fatale”

L'attore canadese Joshua Jackson è l'interprete della serie su Paramount + "Attrazione fatale". 36 anni dopo il film cult con Michael Douglas e Glenn Close. Ma non assolve il suo personaggio "Dire che è una scappatella non vale!"

«Non ho intenzione di essere ignorata, Dan!». Fate un grosso respiro e provate a ricordare. Il coniglietto dentro alla pentola non vi dice niente? Il volto immerso nella vasca da bagno piena d’acqua? E i nomi di Alex e Dan? Sono tutte immagini rimaste impresse nella memoria. Quelle della vendetta del secolo (scorso). Di una donna sedotta e poi rifiutata, ma decisa a non farsi mettere da parte.

Attrazione fatale diventa una serie tv con Joshua Jackson

Lo stalking prima che si chiamasse così era già stato ben rappresentato al cinema da un film diventato un classico, che fece la fortuna di Michael Douglas e Glenn Close: Attrazione fatale. Diretto da Adrian Lyne nel 1987, raccontava di un uomo sposato che ha una relazione extraconiugale, cerca di troncarla ma diventa preda dell’amante che a farsi lasciare non ci pensa proprio. Pensavate fosse finita qui? Niente affatto. Dal 1º maggio arriva l’omonima serie tv su Paramount+, con Joshua Jackson nei panni di Daniel Gallagher che furono di Michael Douglas, Lizzy Caplan in quelli di Alex interpretata nell’originale da Glenn Close, Amanda Peet in quelli della fedele moglie Beth che 36 anni fa era Anne Archer.

La trama della serie

Punto di partenza: dopo aver scontato 15 anni di prigione per l’omicidio di Alex, Dan viene rilasciato sulla parola per ricongiungersi alla sua famiglia e provare la propria innocenza. È una rivisitazione in chiave moderna dell’iconico film, ha diverse chiavi di lettura e affronta tanti temi, tra cui i disturbi di personalità, le dinamiche familiari, i sensi di colpa e le responsabilità di chi commette un omicidio. Ne abbiamo parlato col protagonista, quel Joshua Jackson che chi era ragazza alla fine degli anni ’90 senz’altro ricorda nel ruolo del mite Pacey in Dawson’ Creek prima di vederlo in altre due serie cult: la fantascientifica Fringe e la drammatica The Affair.

Com’è cambiata la storia di Attrazione fatale dagli anni ’80 a oggi?

«All’epoca gli spettatori si divisero in due fazioni: chi prendeva le parti di lui, chi di lei. Scegliendo tra il bene e il male. In quegli anni era accettabile vedere un film su un uomo sposato con figli che aveva una relazione extraconiugale. Anzi, molti erano addirittura contenti, orgogliosi guardando Dan sullo schermo. E ovviamente, quando la storia prende una piega inaspettata e la donna sviluppa un’ossessione nei confronti dell’uomo che l’ha lasciata, tifavano tutti per lui: lei era la cattiva, una persona orribile e spregevole che voleva rovinare un matrimonio perfetto. Per la moralità di quel periodo quella di Dan era solo una scappatella, un piccolo errore. Oggi, invece, si fa fatica ad accettare una situazione del genere. Quella versione del film non può esistere nel 2023, perché il pubblico vuole saperne di più, capire le motivazioni che hanno portato Alex a reagire in quel modo. Soprattutto, ci si aspetta anche che l’uomo debba assumersi le proprie colpe e responsabilità. Nel finale del film che conosciamo Michael Douglas uccide Glenn Close, mentre la sceneggiatura originale prevedeva che Alex si suicidasse, incolpando Daniel. A quei tempi fu considerato un finale troppo drastico, e perciò scartato, ma la serie di oggi riparte proprio da lì».

Che tipo è invece il “suo” Dan?

«Rispetto al film, nella serie tv la salute mentale di Dan è discutibile. È un uomo che non è onesto con se stesso, che permette alla propria fragilità di causare danni immensi, che non riesce a contenere i lati più oscuri del suo ego. Ci tiene ad apparire corretto anche se in realtà non lo è. La sua etica si regge sul privilegio e sul successo, ma ha basi fragili. La redenzione di Dan non riguarda ciò che accadde con Alex o il motivo per cui viene incarcerato. L’unica vera redenzione può realizzarsi attraverso la famiglia. Dan deve imparare ad assumersi le proprie  responsabilità, indipendentemente dal fatto che il tribunale lo ritenga colpevole o innocente».

Joshua Jackson, come considera questo ruolo?

«A 44 anni penso di essere arrivato a un’età in cui i miei ruoli possono solo migliorare. L’aspetto positivo è che quelli che mi propongono adesso hanno risvolti molto intimi e personali. Sono scritti da chi ha esperienze di vita e vuole raccontare la storia di un personaggio a tutto tondo. Invece quando sei più giovane – anche se posso ritenermi fortunato con i ruoli che ho interpretato – sei sempre il figlio o il fidanzato di qualcuno, una figura marginale».

Lo stesso non si può dire per la maggior parte delle attrici 40enni?

«Credo che le donne siano state discriminate per decenni a causa dell’età, ma con l’arrivo delle piattaforme di streaming ci sono più opportunità anche per loro. Penso che questo sia un periodo interessante per la maggior parte degli attori e sopratutto per le minoranze, donne di colore incluse, come mia moglie Jodie (l’attrice Jodie Turner Smith, ndr). Le opportunità che le donne possono avere si sono moltiplicate. Io, per esempio, ho iniziato la mia carriera interpretando ruoli marginali per arrivare a quelli molto più complessi, la maggior parte delle donne invece inizia la propria carriera in ruoli complessi e sfaccettati e finisce per diventare moglie o mamma. Negli ultimi anni, però, c’è stato un cambiamento piuttosto significativo. Era ora».

Come vive la celebrità?

«Ho iniziato a lavorare e guadagnare molto presto. In famiglia non eravamo poveri ma nemmeno avevamo denaro in eccesso. Ho iniziato a girare Dawson’s Creek a 19 anni, e ho continuato fino ai 24. All’improvviso ho raggiunto la fama, sono stato adulato, ho avuto tutti i comfort, ma dovevo anche cercare di gestire la normalità nella mia vita privata. La fama ti dà accesso a privilegi che altrimenti non avresti, però ha anche degli eccessi e dei lati oscuri. Sono stato molto fortunato ad avere una vita a Vancouver, dove sono nato, lontano da Hollywood e dal mio lavoro».

Come ha conosciuto sua moglie, l’attrice Jodie Turner-Smith?

«Le racconto la stessa cosa che dico a mia figlia di 3 anni Janie: “Quando ho visto tua mamma dall’altra parte della stanza, sapevo che avrei voluto passare il resto della mia vita con lei”. In realtà, abbiamo avuto una notte di passione, nel 2018, pensando che non ci saremmo più rivisti. Poi sono diventate 3 notti… È da allora che siamo inseparabili. Sposarmi e diventare padre “tardi” è stata la cosa più bella che potesse capitarmi».

Le manca il Canada?

«A volte sì. Ma vivo negli Stati Uniti da più di 25 anni e mi sono abituato. L’amore che ho per Los Angeles è un amore da immigrato, l’amore sincero per un luogo in cui hai scelto di vivere. Mi piace stare qui perché è un Paese in continua crescita. Sta ancora scrivendo la storia di ciò che è e di ciò che può diventare, nel bene e nel male. Dopo avere sposato Jodie ho iniziato però a rendermi conto di quanto razzismo ci sia. Crescere una bambina di colore in questo Paese è difficile. Ogni giorno ricevo molte critiche sui social media, sempre legate al fatto che ho sposato una donna afroamericana. E questa, nell’America di oggi, la trovo una cosa incomprensibile. Non so dare un motivo a questi comportamenti, pregiudizi e atteggiamenti. Sto ancora cercando delle risposte che mettano il cuore in pace a me e alla mia famiglia».

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