ricordi d'infanzia

«Il bambino che vive in noi ci aiuta a comprendere quelli che ci stanno accanto. E a raggiungerli là dove si trovano: nei meandri della fantasia, nell’intermittenza delle emozioni».

Se sei genitore, allora, vale la pena di provare. Ecco, con l’aiuto dell’esperta, quattro insegnamenti che possiamo trarre da questo viaggio nella nostra infanzia.

Per capire i figli, torniamo alla nostra infanzia

Ricordare le emozioni provate da piccoli aiuta a essere genitori migliori. Lo sostiene una grande psicologa

«Quando il bambino era bambino, non sapeva di essere un bambino, per lui tutto aveva un’anima e tutte le anime erano tutt’uno». È una “fotografia dell’infanzia” dello scrittore e poeta tedesco Peter Handke. Che Silvia Vegetti Finzi, psicoterapeuta e docente di psicologia dinamica all’Università di Pavia, cita per accompagnarci in un viaggio a ritroso nel tempo, verso l’infanzia. La sua, prima di tutto, come racconta nell’emozionante libro uscito in questi giorni Una bambina senza stella (Rizzoli), a metà tra l’autobiografia, il saggio e il diario. Ma anche quella di ciascuno di noi, che pure non abbiamo vissuto, come la Vegetti Finzi, gli anni tragici del fascismo, della guerra e delle persecuzioni razziali che la coinvolsero in quanto figlia di padre ebreo.

«In questo libro mi sono raccontata seguendo un’urgenza che avvertivo da anni. Non è stato facile: recuperare dal passato la nostra parte bambina, la più fragile, la più segreta è un’operazione che richiede tempo» spiega l’autrice. «E poi l’infanzia è fatta d’immagini, più che di parole, si ammanta di pudore, si sottrae all’esposizione. Eppure compiere questo percorso è importante perché proprio in quegli anni è racchiuso il nocciolo della nostra identità. Tutto ciò che siamo, persino le occasioni perdute, è là, nei sedimenti della memoria che del fluire del tempo trattiene l’essenziale». Tornare indietro insomma, permette di conoscere meglio se stessi. Ma anche di entrare in sintonia con i propri figli.

È il dolore che porta a crescere

Proviamo ad andare con la memoria il più indietro possibile: puntualmente arriveremo a un momento in cui affioreranno frammenti del mondo che ci circondava (oggetti, colori, voci, volti, profumi) e non di noi stessi. «Ecco, quella è l’età dell’oro, la più felice e spensierata: la coscienza dell’io, infatti, nasce dalla cognizione del dolore. È da quel momento che, nei nostri ricordi, appare anche il noi stesso bambino» spiega l’esperta.

Il motivo è semplice: nei momenti felici guardiamo il mondo. Mentre, quando soffriamo, ci ripieghiamo su noi stessi. È successo (o succederà) anche ai nostri figli. E noi avremo la tentazione di proteggerli e risarcirli da ogni più piccolo dolore. «Invece è un passaggio di crescita imprescindibile. E lasciare che i piccoli lo affrontino vuol dire aiutarli a crescere forti e autonomi».

I bambini sanno farsi carico di loro stessi

Anche nelle realtà più ostili i piccoli utilizzano le risorse dell’età per sopravvivere e crescere. «In questi anni in cui i genitori, per proteggere i figli da ogni male, impediscono loro di tentare, sbagliare e riprovare, è importante ricordare che i bambini possono, almeno in parte, prendersi cura di sé, aiutarsi, consolarsi e diventare grandi sfruttando le potenzialità e le risorse che sono dentro di loro» spiega la Vegetti Finzi. «Sono ancora privi di esperienza, è vero, ma non è forse vero che la vita s’impara solo vivendo? Come i cuccioli degli animali, anche quelli umani possiedono innate e straordinarie capacità di adattamento e in più, grazie a una fervida immaginazione, possono uscire indenni, come l’araba fenice, perfino da brucianti situazioni esistenziali».

Insomma, noi genitori dovremmo sforzarci di non essere così presenti (e ansiosi di prevenire ogni fatica). Se i nostri figli non conoscono la frustrazione non possono produrre gli anticorpi che li aiutano a crescere.

Dentro di noi esiste una bussola preziosa

Di cosa ha bisogno un bambino? «Di essere accolto, come diceva la grande pediatra e psicanalista francese Françoise Dolto» risponde l’esperta. «Ma se, per qualsiasi motivo, i genitori non possono farlo, i piccoli sono dotati di antenne in grado di individuare dei genitori alternativi. Cioè persone adulte sufficientemente accoglienti e affettuose. Merito delle mappe dell’esistenza che  tutti portiamo nell’inconscio».

Accadde anche alla piccola Silvia Vegetti Finzi, affidata ancora neonata a dei parenti mentre la mamma e il papà non riuscivano a reimpatriare dall’Africa (all’epoca, Abissinia) a causa delle leggi razziali. E tra i vari parenti presenti nella grande casa di Mantova la bambina, crescendo, si scelse con intraprendenza una mamma e un papà: erano gli unici zii che vivevano in coppia, senza figli e si erano dimostrati dolci e affettuosi con lei. «Li avevo individuati perché corrispondevano a un modello che, senza saperlo, tutti abbiamo stampato nella cartografia della nostra mente, secondo un archetipo che orienta la vita collettiva e individuale» spiega.

L’essenziale aguzza la creatività

Tornare con la memoria all’infanzia significa, inevitabilmente, approdare a un mondo più semplice e con molta meno “merce”, giocattoli inclusi. «Ingombrare la vita dei bambini con troppe cose, come facciamo oggi, è un errore. Perché impedisce loro di annoiarsi e, quindi, di trovare in se stessi risorse e aspirazioni» continua l’autrice. «Solo l’essenziale consente ai bambini di guardare alle relazioni con gli altri e a ciò che li circonda con curiosità e rispetto. E questa consapevolezza è un dono prezioso, che farà la differenza anche da adulti».

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