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È giusto rientrare al lavoro dopo 15 giorni dal parto?

  • 11 01 2017

Marissa Mayer e le altre della maternità lampo

Yahoo si lascia alle spalle l’era di Marissa Mayer, ex veterana di Google assunta nel 2012 come nuova speranza di rilancio del gruppo. Ma la cura adottata a base di tagli occupazionali (circa 3.000 licenziamenti tra il 2012 e il 2015) e manovre di investimento non ha portato i risultati sperati. Tanto che nel marzo del 2016, a riassumere nel modo più impietoso la sua avventura è il trafiletto che Fortune le dedica nel momento in cui la inserisce nella classifica dei 19 leader più deludenti del mondo: “I profitti continuano a calare e i fiaschi continuano ad accumularsi”.

Ricordiamo però Mayer anche per le sue gravidanze controverse: era in attesa del primo figlio quando venne nominata amministratrice delegata della multinazionale. Il bambino nacque dopo 3 mesi e lei si assentò per appena 15 giorni. All’annuncio della seconda gravidanza dichiarò sul suo blog: “Dal momento che la mia gravidanza non ha avuto problemi di nessuno tipo e visto che questo è un momento unico nella trasformazione di Yahoo, ho intenzione di avvicinarmi alla gravidanza e al parto come ho fatto con mio figlio che ora ha tre anni, prendendomi un tempo limitato di pausa dal lavoro“. La Mayer aspettava due gemelle che nacquero nel dicembre 2015.

Marissa Mayer fu fortemente criticata per queste scelte, tanto che predispose per i dipendenti di Yahoo 16 settimane di congedo parentale in un paese dove la maternità non è riconosciuta. Congedo del quale lei stessa però non usufruì, sminuendo di fatto l’importanza e la necessità di passare del tempo dopo il parto con il neonato per le neomamme “normali”.

Prima di lei ci furono altri casi celebri di maternità lampo: Rachida Dati, ex ministro francese della Giustizia, tornò al lavoro dopo appena 5 giorni dal parto.
Michelle Hunkizer ritornò sulla scena di Striscia la notizia una settimana dopo il parto. Carmen Chacon, ministro degli Esteri spagnolo nel governo Zapatero si recò in missione in Afghanistan durante il settimo mese di gravidanza. Anche in Italia le ex-ministre Giovanna Melandri, Stefania Prestigiacomo e Maria Stella Gelmini ridussero al minimo l’assenza dal lavoro, in un paese dove la maternità obbligatoria è di 5 mesi. Addirittura la Gelmini definì la legge di maternità “un privilegio e non un diritto”.

Certamente non stiamo parlando di “donne comuni”, ma proprio perché queste figure catalizzano l’attenzione dei media, siamo di fronte alla pericolosa possibilità di veder vacillare diritti acquisiti in anni di lotte. Sbandierare la possibilità di poter rientrare al lavoro pochi giorni dopo il parto fa sentire ancora più inadeguate quelle mamme che rientrano in tempi stabiliti per legge. Oltre a dare l’idea ai datori di lavoro che forse sì, si può fare, declassando come fannullone tutte quelle mamme che godono della maternità che spetta loro di diritto. E che alla fine di questo diritto si ritrovano comunque a naufragare nella gestione complicatissima del dopo maternità: nonni (per chi è fortunata), baby sitter (per chi può permettersela) o asilo nido (se si riesce ad accedere). E anche se un bebè di 6 mesi non è come uno di appena 15 giorni di vita, bisogna comunque spezzare quel naturale accudimento del quale entrambi (mamma e piccolo) hanno bisogno.
È questa l’emancipazione per la quale generazioni di donne hanno lottato?

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