Volontariato: un’esperienza dal CUAMM

  • 20 04 2012

Volontariato: l’esperienza di una mamma del CUAMM

Medici con l’Africa, CUAMM (Collegio universitario aspiranti medici e missionari), è un’organizzazione non governativa, nata nel 1950, con lo scopo di formare medici per i paesi in via di sviluppo. Opera prevalentemente nel continente africano (da cui il nome Medici con l’Africa) ed è presente in 7 paesi dell’Africa a sud del Sahara: in Angola, Etiopia, Mozambico, Sud Sudan, Tanzania, Uganda e Sierra Leone.

Laura Maldini è un’infermiera, che lavora in terapia intensiva neonatale, moglie di un pediatra e mamma di Francesco, che oggi ha 14 anni.

Abbiamo raggiunto Laura per telefono: ci ha raccontato la sua esperienza con il CUAMM in Angola, come formatrice delle ostetriche.

Laura, quando sei partita per l’Angola con il CUAMM e la tua famiglia, tuo figlio Francesco aveva appena cinque anni, giusto ?

Sì, dopo aver vissuto una breve esperienza di un paio di mesi in Tanzania, quando mio figlio Francesco aveva 5 anni, ci hanno chiesto se eravamo disponibili a partire tutti e due, mio marito ed io, in Angola: un paese dove la guerra era appena finita. (Lì, il CUAMM segue oggi il progetto “Prima le mamme e i bambini”: per garantire l’accesso gratuito al parto sicuro e alla cura del neonato: in Angola per dare alla luce il proprio figlio muoiono 14 mamme su 1000 (In Italia il dato è di  0,04). Ho deciso che si poteva provare: avevo appena cambiato lavoro e mi occupavo di terapia intensiva neonatale. Il progetto che ci avevano proposto era, per me la formazione alle ostetriche tradizionali, per mio marito, fare il pediatra in reparto.  Siamo partiti tutti e tre, mio marito, mio figlio ed io. Mio figlio Francesco era solo preoccupato di andare in aereo: l’ultimo viaggio di ritorno dalla Tanzania era stato un po’ brutto. Voleva andare in nave o in macchina: ovviamente non l’abbiamo potuto accontentare. Per il resto era contento.

Cosa hai trovato in Angola?

Arrivati in Angola, mi sembrava di essere entrata nei racconti di mio nonno: paese distrutto, case diroccate, palazzi sventrati, senza luce, senza acqua corrente, senza cibo, lì ho capito cosa significa togliersi il pane di bocca per i propri figli. La mia forza era: “se me la vedo brutta, torno a casa mia”. Poi, di fatto, ci si abitua: non è che dopo tanto ti manca la luce, il televisore: forse l’acqua corrente, che esce dal rubinetto è quella che mi mancava di più. Il problema era reperire il cibo. Mio figlio beveva molto  latte e lì non ce n’era. Animali non se ne vedevano. L’unico latte che si trovava era quello in polvere. Altrimenti si mangiavano solo riso e fagioli. Francesco mangiava tanta frutta e molto riso e fagioli. E’ stato l’unico della famiglia ad essere ingrassato. Noi andavamo a letto sentendo la fame, lui no. C’era un pane buonissimo che veniva fatto tutti i giorni. L’unica cosa che mi diceva era “mamma non capisco perché non sai più cucinare: si mangiano sempre riso e fagioli”..Facevamo una dieta poco varia ma completa, insomma.

Cosa ti ha trasmesso questa esperienza di volontariato con il CUAMM ?

A distanza di anni, quando apro il rubinetto, ho coscienza di quello che ho. Soprattutto in estate, non lavo più la verdura con l’acqua corrente: in questo modo uso poi l’acqua per annaffiare i fiori.

Oppure, se lavo qualcosa a mano, l’acqua dell’ultimo risciacquo la riuso per la lavatrice.

Sono diventata consapevole di quello che ho e che potrebbe finire.

In Africa, a dispetto di quanto si crede, c’è un igiene pazzesco: la mattina tutti si lavano, le mamme lavano i bambini piccoli, e i più grandi si lavano da soli. Con l’acqua avanzata dal giorno prima, poi vanno tutti a prendere l’acqua e poi vanno a scuola. Io pagavo delle donne che mi portavano l’acqua in casa: con un barile da circa 250 litri , usavamo due barili a settimana in cinque persone. Qui cinque persone usano certamente più acqua.

Cosa hai imparato dalle donne africane?

Sicuramente tanto coraggio, ma anche rassegnazione: il fatto che la mortalità di mamme e bambini sia così alta è considerato quasi un fatto normale. Quando ero lì, un direttore sanitario africano, nel corso di una conferenza ha detto “mia mamma mi ha sempre detto che si fa un figlio per la diarrea, uno per il morbillo, uno per la polmonite…”

Sono stata spinta a partire per l’Angola perché sapevo che tanti bambini muoiono alla nascita per motivi molto banali: legati alla mancanza d’igiene. Al mattino portavano in sala parto due bidoni di acqua da 50 litri l’uno. Così si gestiva una sala parto! Si muore di infezioni banali: noi non insegnavamo alle ostetriche ad espletare il parto perché in quello sono bravissime, però i bambini morivano di tetano. Non avevano appreso alcune regole di igiene fondamentali: che, ad esempio, il cordone ombelicale va tagliato con strumenti sterili… Ognuno di noi può fare qualcosa, non c’è bisogno di andare fino in Africa: è importante avere la consapevolezza che delle volte pretendiamo tanto quando lì c’è qualcuno che non ha nulla. Ciascuno di noi dovrebbe fare ciò che può, senza pretendere di risolvere tutti i problemi.

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