tornare al lavoro dopo la maternità

Essere mamma e lavoratrice è sempre più difficile. I dati parlano chiaro: secondo l’ultimo Rapporto annuale dell’Istat, solo il 46% delle italiane ha un impiego. E sta aumentando il numero delle donne che lasciano il posto prima che il figlio compia 2 anni: erano il 18% nel 2005, sono passate a oltre il 22% nel 2012.

«Per poter essere assunte o riuscire a mantenere il proprio lavoro, bisogna avere a disposizione persone e servizi che si prendano cura dei bambini» dice Linda Laura Sabbadini, Capo dipartimento per le statistiche sociali e ambientali dell’Istat. Ma il nostro Paese su questo fronte è molto carente, perché spende poco per il welfare familiare. E la crisi ha peggiorato la situazione. Risultato? «Si registra un calo di occupazione nella donne in età fertile, dai 15 ai 49 anni» dice Sabbadini.

Prima di avere un figlio si fanno i conti. Non tutte possono permettersi le spese del nido e solo il 4,5% delle mamme con bambini sotto i 2 anni ricorre a una baby sitter. Nel 2005 erano il 9%.

Quanto ci costa tornare al lavoro dopo un figlio

Almeno 1.000 euro al mese. Molte neomammme devono assumere una baby sitter e magari anche una colf. Ma 1 su 4 non riesce a sostenere queste spese e rinuncia all’impiego (o alla maternità). Eppure una soluzione ci sarebbe: dare incentivi alle famiglie proprio come si fa con le imprese

Cosa può essere d’aiuto alle neomamme? Un confronto con altri paesi europei su congedi parentali e flessibilità lavorativa può farci capire quale potrebbe essere la direzione da seguire per agevolare la vita delle famiglie e delle mamme.

L’aiuto alle mamme non dovrebbe arrivare in primo luogo dall’interno della famiglia? Ma ancora oggi i papà si occupano poco di figli e casa…

Maternità e lavoro: un binomio ad alto tasso di… stress!

La baby sitter è un lusso per le mamme lavoratrici

È la contraddizione del lavoro femminile nel nostro Paese: se desideriamo avere un bambino e anche un posto, abbiamo in molti casi bisogno di una baby sitter e di una colf. In pratica: per lavorare dobbiamo prima diventare noi stesse datrici di lavoro.

Questo, però, è un lusso che tante non possono permettersi. Basta guardare i dati forniti da Assindatcolf, il sindacato nazionale dei datori di lavoro domestico: una baby sitter per 25 ore settimanali, che soddisfa le esigenze di una madre con un impiego part time, ha un costo medio mensile di 913 euro e annuale di 10.320 euro. Per un piccolo aiuto nelle faccende domestiche, 6 ore a settimana, si spendono 218 euro al mese e 2.472 euro l’anno. Mentre per una badante convivente la cifra annuale arriva a 16.670 euro. A questi costi vanno aggiunte altre voci come le ferie, la tredicesima e anche l’eventuale trattamento di fine rapporto.

Nonni e asilo nido non bastano

Daria Costanzo, lavora in un supermercato, ha 33 anni, due figli (di 15 anni e 13 mesi) e un terzo in arrivo. «Verrò fino al nono mese per prendermi un mese di maternità in più dopo» dice, seduta alla cassa, con il pancione ormai grande. «Del bimbo si occuperanno i miei genitori e poi andrà al nido. Ho fatto così anche con gli altri due».

I nonni, però, non sono una soluzione a disposizione di tutti: in qualche caso lavorano ancora, vivono lontano o devono, loro stessi, accudire i genitori anziani e non più autosufficienti. Neppure il nido risolve sempre il problema. Lo conferma Ivana Falzarano, 44 anni e tre figli (di 13, 11 e 2 anni). «Juri, il più piccolo, è nato prematuro. Per mesi la sua vita è rimasta appesa a un filo di speranza» racconta. «Anche adesso un semplice raffreddore potrebbe essergli fatale. È impensabile mandarlo in un asilo».

Nonni e nido, inoltre, non bastano per coprire tutte le necessità di gestione della famiglia e della casa. E spesso si deve ricorrere a colf e baby sitter. «Quando è nata la mia seconda figlia, ho dovuto affiancare ai miei genitori una persona» continua Ivana. «Non avrebbero potuto farcela da soli con due bimbe piccole. La colf si occupava soprattutto delle faccende di casa, ma dovevo dare a lei più della metà del mio stipendio».

Le mamme si accontentano del part time

Sabrina Lupelli, 45 anni, con due figli di 10 e 13 anni, lavora in un call center con contratto part time.

«Ero capo progetto in un’azienda di informatica e avevo un impiego a tempo pieno» racconta. «Guadagnavo più di mio marito e potevamo permetterci di pagare una colf per pulire la casa. Con il bambino mi aiutava mia madre. Poi, proprio quando è arrivato il mio secondo figlio, l’azienda è fallita e mia mamma era meno disponibile perché anche mia sorella aveva bisogno di lei. Ho trovato un nuovo posto ma, per lavorare 8 ore al giorno, avrei dovuto dare a un’altra persona l’intero stipendio. Ho ripiegato sul part time e accettato un impiego che non corrisponde alle mie qualifiche professionali. Ogni anno l’azienda mi chiede di passare al tempo pieno, ma rispondo sempre di no perché la differenza di paga non coprirebbe i costi della mia assenza da casa il pomeriggio. Anche se può sembrare paradossale, adesso che i miei figli sono adolescenti hanno necessità maggiori che in passato. Ci sono il catechismo, lo sport, la musica. Ho fatto bene i conti: assumere qualcuno per sostituirmi nelle pulizie e per accompagnare i ragazzi nei loro vari impegni mi costerebbe di più. Quindi anche se siamo in quattro e un aiuto mi farebbe comodo, mi occupo di tutto da sola».

Servono incentivi per le famiglie come per le imprese

«Le famiglie sono discriminate dal punto di vista fiscale» spiega Luigi Golzio, ordinario di Organizzazione aziendale all’università di Modena e di Reggio Emilia. «Vengono equiparate alle imprese per gli oneri che devono sostenere: per esempio, i contributi, le ferie, la tredicesima e la liquidazione. Non usufruiscono, però, degli stessi vantaggi».

Un’azienda registra il lavoratore assunto come un costo e, di conseguenza, può scaricare quella voce dalle tasse. Una mamma affronta spese simili ma non le è consentito detrarle. «Le famiglie assumono colf, badanti e baby sitter per necessità: per conciliare tempi di vita e di lavoro e supplire alle carenze dello Stato nell’assistenza ai bambini e agli anziani» dice Teresa Benvenuto, segretario nazionale di Assindatcolf.

«È un forma di welfare fai-da-te. Nelle consultazioni che abbiamo avuto con il governo per il Jobs Act e la Legge di stabilità, abbiamo chiesto di estendere ai datori di lavoro domestico gli incentivi all’occupazione previsti per le imprese» dice Benvenuto. Non se ne è fatto nulla, per ora. Eppure è questa la direzione da prendere per favorire la conciliazione.

«Con la detrazione dello stipendio della baby sitter dal proprio reddito e la possibilità di dare l’anticipo mensile del Tfr in busta paga, le spese per le famiglie sarebbero più leggere. Ciò porterebbe a un doppio vantaggio: oltre a ridurre i casi di lavoro nero, invoglierebbe molte donne a ricorrere a un aiuto domestico per avere un impiego. E, così, si creerebbe nuova occupazione».

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