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All’Università di Trento si usa solo il femminile

A Trento l'Ateneo ha riscritto il regolamento usando il femminile sovraesteso: il rettore - che si chiamerà rettrice - dichiara: «Una scelta che mi ha fatto riflettere su come le donne si sentano a non essere rappresentate nei documenti ufficiali». Una provocazione o un'abitudine che tutti dovremmo prendere?

Vuota retorica o iniziativa efficace? Esercizio di ideologia o l’inizio di un cambiamento, alla ricerca della parità su cui l’Italia si colloca 79esima tra 143 Paesi? Fa discutere il nuovo regolamento dell’Università di Trento che utilizza il femminile sovraesteso per le cariche e le referenze di genere: la rettrice, la presidente, la segretaria, la decana, la professoressa, anche quando a ricoprire le cariche sono uomini.

Femminile sovraesteso: cos’è

Insomma scompaiono tutti i nomi al maschile, e anche quando si usa il plurale riferendosi a più persone di sesso diverso, si usa il femminile. Una vera rivoluzione, guidata da un uomo, il rettore Flavio Deflorian, che ha parlato di atto simbolico per dimostrare la parità a partire dal linguaggio dei documenti. Un atto che impatterà su tutti i documenti dell’università, l’organizzazione, il funzionamento degli organi, le nomine: tutto sarà declinato al femminile.

Una scelta che va oltre l’uso della controversa Schwa perché non sceglie un approccio neutro per favorire l’inclusione, ma riscrive tutto al femminile. Quindi anche gli uomini saranno chiamati con una carica declinata al femminile. In una nota stampa il rettore Flavio Deflorian ammette: «Leggere il documento mi ha colpito. Come uomo mi sono sentito escluso. Questo mi ha fatto molto riflettere sulla sensazione che possono avere le donne quotidianamente quando non si vedono rappresentate nei documenti ufficiali. Così ho proposto di dare, almeno in questo importante documento, un segnale di discontinuità. Una decisione che è stata accolta senza obiezioni».

Cosa è successo a Trento prima del femminile sovraesteso

Questa scelta si inserisce sulla scia di decisioni precedenti. Già dal 2017 l’università trentina aveva approvato un vademecum per un uso del “linguaggio rispettoso delle differenze” con l’obiettivo di promuovere un uso non discriminatorio della lingua italiana nei vari ambiti della vita quotidiana della comunità universitaria, come durante gli eventi pubblici o la produzione di testi amministrativi. All’epoca l’auspicio era che il nuovo Regolamento avrebbe dovuto essere scritto riferendosi ai gruppi di persone (studenti, docenti, eccetera) sia con il femminile che con il maschile. Poi la decisione è andata oltre questi punti di vista, fino a femminile sovraesteso. «Nella stesura del nuovo Regolamento – racconta il rettore – abbiamo notato che accordarsi alle linee guida sul linguaggio rispettoso, avrebbe appesantito molto tutto il documento. In vari passaggi infatti si sarebbe dovuto specificare i termini sia al femminile, sia al maschile». Per questo si è fatta la scelta di rottura di usare il femminile per tutti.

Il dibattito

Il dibattito sull’uso del maschile sovraesteso nei contesti pubblici è molto frequente e spesso riguarda soprattutto la definizione delle singole professioniste. La discussione sul maschile sovraesteso si inserisce nell’ampia questione dell’introduzione del linguaggio inclusivo negli atti ufficiali, verso cui la politica italiana è sempre stata respingente. Il femminile sovraesteso viene spesso proposto e usato all’interno di associazioni e movimenti femministi, quelli per i diritti delle persone LGBTQ+, ma raramente è applicato in un contesto istituzionale come quello universitario. Il problema non è solo una questione linguistica, quanto piuttosto che alla prevalenza del maschile sul femminile nel linguaggio corrisponde una prevalenza nel pensiero, e che quindi continuare a usare il maschile sovraesteso, abitudine linguistica secolare in italiano, sia di fatto un modo per portare avanti un modo di pensare in cui le donne sono sistematicamente subordinate agli uomini.

La critica al femminile sovraesteso: non serve umiliare gli uomini

Tra le attiviste si sono sollevate voci critiche, come quella di Alessandra Libutti, femminista e giornalista di inoltreblog.com, che ha commentato la decisione del consiglio dell’Università di Trento a Radio Radio: «Questa decisione è come un boomerang. Da quanto mi è stato riferito, sembra essere una provocazione. Dunque, accettiamo l’ipotesi che si tratti di una provocazione, ma una provocazione finalizzata a cosa? Se uno vuole provocare qualcuno, qual è lo scopo? Quindi, l’obiettivo di questa decisione sembra essere quello di far provare agli uomini ciò che le donne hanno sempre provato. Qui ci troviamo nell’ambito di un tentativo di terapia di massa, il che non mi sembra una politica intelligente. Si tratta di voler umiliare una categoria di persone per far loro capire cosa si prova. È una metodologia che sembra più simile alla rivoluzione culturale cinese, cercando di umiliare le persone per far loro capire qualcosa, cosa che, dal punto di vista psicologico, non funziona e non esiste».

Anche Azione Universitaria punta il dito contro l’iniziativa: si tratta di retorica vuota e paternalista che suggerisce che l’inclusione nelle università sia una questione di linguaggio.

Il parere positivo: il gioco dell’inversione funziona

La provocazione invece funziona per la sociolinguista Vera Gheno, che da anni si occupa di questioni di genere, diversità, equità e inclusione, autrice di vari libri tra cui l’ultimo, Grammamanti, immaginare futuri con le parole, in uscita in questi giorni. Anche se, dice a ilquotidiano.it, «le provocazioni si fanno all’inizio di un percorso, ora l’uso di un linguaggio più inclusivo dovrebbe essere un’abitudine». In Italia però non è così. Insomma il gioco dell’inversione funziona quando si vuole dimostrare l’uso sessista e non paritario delle parole, ma non solo per le questioni linguistiche: «se si fa l’esempio di un uomo che passeggia per strada a cui un gruppo di donne si lascia andare al cat-calling, al pappagallismo, facendo fischi e complimenti, tutti ridono perché sembra assurdo. Ma non è assurdo per una donna. L’inversione, quando provoca quanto ha sperimentato il rettore, fa capire che non c’è ancora equità nell’uso della lingua».

La lingua italiana non è sessista, è l’uso che se ne fa a esserlo

Quindi per l’esperta la lingua italiana non è sessista. «Per la lingua italiana l’uso dei femminili professionali non è soltanto lecito ma è la normalità. Tra ministro e ministra c’è di mezzo soltanto l’abitudine all’uso. Siamo meno abituati perché ci sono più ministri uomini. Linguisticamente si devono usare i femminili professionali, perché tutti i mestieri hanno il loro maschile e il loro femminile. Ripeto, è questione di abitudine, perché i mestieri che “stonano” al femminile sono quelli che un tempo le donne non svolgevano: sindaca, ministra, ingegnera, architetta. Infermiera, maestra, quelli non “stonano” perché le donne hanno sempre fatto quei lavori». Lo conferma anche Paola Di Nicola Travaglini, che di questa questione ha fatto la sua battaglia, firmandosi nei propri atti come “la giudice” e scrivendo la sua storia di giudice donna nel libro, appunto, La giudice. «Scegliere di declinare le professioni al maschile o al femminile non è un vezzo, è una necessità per garantire a tutte e tutti uguale diritto di cittadinanza. Perché la lingua è il riflesso delle nostre abitudini, delle nostre regole sociali e dentro al linguaggio possono annidarsi secoli di pregiudizi» commenta. Nel libro, che racconta gli esordi in un mondo al maschile, fitto di pregiudizi contro le donne, la giudice scopre che la magistratura non è un mestiere per donne e che in realtà nessuna professione che vada oltre quelle più umili – parrucchiera, maestra, postina – si adatta alle donne. «Perché per i mestieri più nobili non si usano i termini al femminile? La lingua lo consente, quindi cominciamo a parlare di rettrice e decana. Ma facciamolo anche noi donne. Troppo spesso la resistenza al cambiamento c’è proprio tra le donne».

Il “benaltrismo”: la tesi per cui i problemi sono altri

Come il presidente Giorgia Meloni e il direttore d’orchestra Beatrice Venezi che, come molti, sostengono che non sia questo a definire la parità. È il “benaltrismo”, cioè la tesi per cui le cose importanti a cui pensare siano altre. Però – come dice Vera Gheno sempre a ilquotidiano.it– «chiedono di essere chiamate al maschile. E la stessa Meloni, come prima circolare del suo governo ha firmato quella che la definisce “il presidente del Consiglio”. Una priorità a quanto pare». Stona quindi che sempre in Trentino l’assessora all’Istruzione, alla Cultura e alle Pari opportunità si faccia chiamare assessore perché “ci sono cose più importanti a cui pensare”. «Avanti con il benaltrismo. Un assunto anche un po’ farlocco perché il fatto che ci si occupi di come usare nel modo corretto la lingua italiana non impedisce di occuparsi di altre cose. Non è che se la chiamo assessora non riesce ad occuparsi di asili nido, gap salariali o altri temi fondamentali per le donne».

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