Elio-Fiorucci

Elio Fiorucci, il genio che ha rivoluzionato la moda

Il 20 luglio 2015 il made in Italy perdeva un protagonista: Elio Fiorucci, genio naïf e concreto. Ecco le sue idee geniali, i capi che abbiamo amato di più, le sue ispirazioni che sono diventate un fenomeno, bel oltre la moda

Quando Enzo Biagi nei primi anni Settanta accusava Elio Fiorucci di aver distrutto la moda, ignorava che stava apostrofando proprio uno dei suoi più folgoranti salvatori. Dopo l’apparizione di Fiorucci e del suo mondo la moda ha potuto permettersi qualsiasi deviazione di percorso nel campo dell’immaginario, anche sconfinare in ambiti considerati o rischiosi o di serie B.

Il nuovo libro

Oggi, a distanza di un anno dalla sua improvvisa scomparsa, questo genio del Made in Italy viene celebrato da un libro “Fiorucci” di Matteo Guarnaccia (24 Ore Cultura) e anche noi vogliamo rendergli un doveroso omaggio, ricordando alcune delle sue piccole ma grandi rivoluzioni, che dal 1968 continuano ad influenzarci in fatto si stile.

Perché è stato rivoluzionario

È stato lui ad applicare per primo il concetto artistico del ready-made al campo tessile: appropriarsi di indumenti già esistenti, “firmarli” cambiandone la percezione nel consumatore. Come per i capi militari, ad esempio- ricordiamo la tuta intera da paracadutista- magari colorati con cromie fluorescenti. La sua frase “Io non creo, copio” rende bene l’idea. Seguendo la quale, stilisti e designer ai nostri giorni, possono fortunatamente non adottare un atteggiamento così snob quando si tratta di trovare pretesti per creare qualcosa di nuovo. Se ai colleghi offre un vero e proprio metodo di lavoro, ai suoi clienti offre tante affascinanti nuove storie, come un cantore dell’abito, che con lui diviene costume di scena. 

Bob Krieger
1 di 13

Edo Bertoglio
2 di 13
– Andy Warhol ed Elio Fiorucci nel 1983

© Edwin Co. Ltd / Foto Saverio Lombardi Vallauri
3 di 13
– T-shirt Fiorucci del 1980

© Edwin Co. Ltd
4 di 13
– Dal catalogo Fiorucci del 1990

Ufficio Stile Milano Elio Fiorucci
5 di 13
– Un poster dell’ufficio grafico Fiorucci del 1977

Ufficio Stile Milano Elio Fiorucci
6 di 13


7 di 13

© Edwin Co. Ltd / Foto Saverio Lombardi Vallauri
8 di 13
– Le shopper Fiorucci, anni Settanta-Ottanta


9 di 13

© Edwin Co. Ltd / Foto Saverio Lombardi Vallauri
10 di 13
– Varie tipologie di etichette in tessuto e materiale plastico, anni Ottanta

Ufficio Stile Milano Elio Fiorucci / Foto Saverio Lombardi Vallauri
11 di 13
– Soft bondage, manette di piume di cigno e di peluche, 1995


12 di 13
– T-shirt Fiorucci, 1980 circa. Il logo con gli angioletti vittoriani fu registrato nel 1970


13 di 13

Dallo stivale al jeans

Nelle sue mani anche uno stivale texano acquista nuovi significati, perché ricoperto in pelle dorata. Allo stesso modo anche il classico jeans 5 tasche lascia il contesto “della tradizione americana”, non solo perché offerto in colori imprevedibili – dal rosa o il giallo canarino-, ma soprattutto perché al rigido cotone denim viene addizionato un ingrediente segreto, la Lycra, ciò ancora oggi rende la vestibilità del capo cosi perfettamente fantastica. L’ingenuo 501 Levi’s made in USA cede il passo al jeans Fiorucci, un’arma contundente a vita alta, inimitabile nel rendere sexy e affascinanti le donne. La sua trovata – dettata da un amore sconfinato per il genere femminile- è alla base del successo di tutti quei marchi street che del jeans hanno fatto il loro caposaldo, da Diesel a Top Shop.

Il folk

L’abbigliamento folk, quello degli empori di campagna, dei bazar o dei mercatini da strada, è un altro delle riserve di ispirazioni di Fiorucci perché possiede un tratto popolare che lo accumuna ai soggetti scelti dalla pop-art. Attraverso delle semplici t-shirt stampate Fiorucci è riuscito a rivendere l’immaginario comune americano agli americani stessi – icone pop, e citazioni passate comprese. Chi ha imparato a menadito la lezione è senza dubbio lo stilista Jeremy Scott, da Barbie, alle recenti pin-up, da McDonalds ai personaggi dei Looney Tunes.

Minnie e Topolino

In regalo per tutti noi la libertà di indugiare in un mondo colorato sospeso tra infanzia e età adulta, non tenendo conto dei limiti posti dalle barriere generazionali e ideologiche. Allora non era poi cosi ovvio che indossare una maglia con il faccione di Minnie o di Topolino potesse andar bene a qualcuno oltre i 10 anni compiuti. Eppure, con Fiorucci diventa un caso mondiale. Arriva al momento giusto per accontentare un pubblico che sta per tuffarsi a pieno nella cultura edonista e consumistica degli anni Ottanta.

Il vintage

Un’altra freccia al suo arco, Fiorucci riesce a trasferire sugli abiti i languori tipici romanticismo chiamando in causa la nostalgia, la passione sfrenata per un mondo lontano e idealizzato, visto magari solo nei film di Hollywood. Così il passato diventa chic perdendo il sentore di polvere e solaio per occupare il centro della scena, sotto i riflettori di nuovo appellativo coniato ad hoc per l’occasione: vintage. In questo modo nascono capi nuovi ma capaci di evocare sensazioni vissute e accendendo ricordi fantastici nella mente. Una strategia che lui spiegava così “Non solo materiali, tagli e forme perfetti ma soprattutto una potente atmosfera emotiva!”.

La plastica

Un rassicurante salto temporale che veniva subito smentito attraverso l’avanguardia più totale: materie e fibre plastiche. Alla fine degli anni Sessanta l’uso della plastica nell’abbigliamento e negli accessori era promosso dalla Swinging London di Mary Quant, ma è Fiorucci a nobilitare il materiale sintetico, elogiandolo come fanno i caposcuola del design italiano, da Ettore Sottsass a Alessandro Mendini, con cui collaborerà assiduamente. Andy Warhol gliene dava atto, e nel suo carnet si legge: “Sono andato da Fiorucci, è proprio un luogo divertente. È tutto ciò che ho sempre voluto, tutta plastica…”. Si, perché negli stores di Fiorucci passava la gente più famosa del momento, che impazziva pur di avere qualcosa marchiato “Fiorucci”.

Oltre la moda

Un fenomeno globale più che una pura e semplice moda. Warhol era rimasto folgorato dai suoi punti vendita che inauguravano una nuova idea, seguita a ruota negli anni a venire. Non erano solo negozi di abbigliamento, ma luoghi in cui esibirsi e vivere l’idea più avanzata di socialità, una “piazza italiana” esportata nel pianeta da New York a Tokyo, da Rio de Janeiro a Los Angeles, con ristorante, bar, teatro, libreria e discoteca – un concetto ribattezzato “concept store” – dove potevano mischiarsi personaggi del jet set e beautiful people spiantati.

Riproduzione riservata