Come (non) funzionano le comunità di recupero

La morte di Pamela e Jessica ha riacceso i riflettori sulle strutture di accoglienza per minorenni. Un universo eterogeneo che ospita bambini in attesa di affido, disabili, tossicodipendenti. Ma, a causa degli scarsi controlli e della mancanza di fondi, non sempre riesce ad aiutarli

Fuggire senza avere un altro posto dove andare né affetti a cui rivolgersi per riscattarsi da un passato difficile e da un presente di fragilità. Le morti di Pamela Mastropietro e Jessica Valentina Faoro hanno riportato l’attenzione sul fenomeno dei “care leavers”, ragazzi affidati alle comunità da cui si allontanano, volontariamente o meno, dopo i 18 anni. A volte con epiloghi tragici. «Sono vicende emblematiche» spiega l’avvocato Elvira Donnarumma, che da anni si dedica ai minori fuori famiglia. «E rivelano un sistema dalle molte storture».

Storture che emergono anche dalla dettagliata relazione appena pubblicata dalla Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza: oltre 100 pagine in cui si denunciano la mancanza di fondi, l’assenza di controlli e un meccanismo farraginoso che, tra servizi sociali e tribunali per i minorenni, troppo spesso non riesce a rispondere alle necessità dei ragazzi. «Non parliamo di casi facili» ricorda Luca Luccitelli, della comunità Papa Giovanni XXIII di Rimini «e ogni situazione richiede interventi mirati. Da chi, come i disabili, ha bisogno di cure specifiche, ai neonati che devono identificare le figure genitoriali. Fino ai tossicodipendenti». Per i quali servirebbero operatori specializzati e separazione dagli altri assistiti.

Manca una chiara distinzione fra i centri

Il problema è che la distinzione tra i vari tipi di comunità è aleatoria. «Non esiste» si legge nella relazione parlamentare «una definizione univoca relativa alle diverse tipologie di strutture di accoglienza». Né, incredibile ma vero, un dato ufficiale che ci dica quanti siano gli ospitati delle comunità. Gli unici numeri, forniti lo scorso anno dall’Istat, parlano di 19.955 minori (di cui 8.129 stranieri) accolti nei vari centri che, pur senza una normativa di riferimento, sono stati distinti dal Garante per l’Infanzia in 3 categorie. Ci sono le case famiglia, dove adulti residenti vigilano su ragazzi in attesa di affido o usciti da situazioni problematiche. Poi le comunità socio-educative, caratterizzate dalla presenza di educatori e di minori con problemi socioaffettivi o che scontano parte di una condanna. Infine le strutture socio-sanitarie, che lavorano su patologie e dipendenze, come quella che ospitava Pamela.

Occorre una legge quadro sui minori

Ma la distinzione, come detto, non è così ferrea. «In tante realtà» conferma l’avvocato Donnarumma «abbiamo i ragazzi disabili insieme ai tossicodipendenti o accanto ai figli portati lì dopo liti con i genitori ma senza ulteriore devianza». Uno dei casi più clamorosi, prima degli episodi di queste settimane, è stato quello della comunità umbra “Il Piccolo Carro”. Daniela Sanjuan e Sara Bosco, di 14 e 16 anni, sono entrambe morte dopo la loro fuga dalla struttura. Di una è stato ritrovato solo il teschio, nel 2013, 10 anni dopo la scomparsa; l’altra è morta per overdose. «Questa comunità» osserva Donnarumma «ha ospitato molti ragazzi con doppia diagnosi (cioè con più patologie o con patologie e devianze, ndr), pur non avendo titolo a farlo. Mi chiedo: nessuno poteva accorgersene prima?».

Il problema della mancanza di controlli emerge dalla relazione della Commissione parlamentare: «Neanche un deputato può entrare senza appuntamento. È un gatto che si morde la coda: le autorità allontanano il ragazzo dalla famiglia ma poi non possono controllarne il percorso» denuncia uno dei suoi membri, Eleonora Bechis. Stesso problema anche secondo la vicepresidente di commissione, Sandra Zampa, che, pur riconoscendo quanto fatto in questa legislatura («dal cyberbullismo al contrasto alla povertà educativa»), sottolinea: «È tempo difare una legge quadro sui minori». Fabio Nestola, consigliere dell’Associazione per la tutela dei minori (Adiantum), ha sottolineato in audizione i concreti rischi di abusi sessuali e percosse, riscontrati in alcune comunità. A Ostia, per esempio, un educatore condannato per abusi sessuali su minori, scontata la pena, è tornato a lavorare nella stessa struttura.

La riabilitazione dura fino a 36 mesi

«Nulla è cambiato» conferma Sergio Pietracito, presidente dell’associazione “Vittime del Forteto”, il centro in provincia di Firenze a cui è legato il caso più noto e drammatico. Ha difficoltà anche a sollevare gli occhi quando ricorda gli abusi di Rodolfo Fiesoli (condannato a 14 anni per le violenze sui minori), di cui anche lui era vittima: «Ogni bambino entrato in quella comunità, che è rimasta in piedi per 34 anni, ha subito violenze, di tutti i tipi». E le bambine? «Erano schiave. Lavoravano e venivano costantemente chiamate “puttane”». Mai un controllo. Finché alcuni fuoriusciti hanno cominciato a parlare. Tutto finisce col legarsi alla questione economica: la mancanza di fondi che, a cascata, si riversano su chi deve beneficiare dell’assistenza.

Nella relazione, non a caso, si calcola una retta media necessaria di 151 euro giornalieri, eppure le comunità ne ricevono tra 69 (a Roma) e 107 (in Piemonte). «Inoltre spesso le rette coprono 1 o 2 anni, quando un percorso riabilitativo ne richiede fino a 3» conclude Luccitelli della Giovanni XXIII. «Ecco perché tagliare ancora i fondi sarebbe un suicidio sociale». Anche perché, al di là del clamore degli scandali, il lavoro quotidiano e silenzioso delle comunità aiuta tanti a riemergere. «Ripensarci ora non è facile, ma posso dire di essere rinato grazie all’aiuto e all’empatia di chi mi ha seguito» racconta Mauro di Verona, che oggi non solo ha ripreso a studiare, ma è diventato lui stesso un ope- ratore sanitario. «Aiuto chi è oggi nelle condizioni mie di ieri. È il minimo che posso fare: mettere a disposizione la mia storia e la mia esperienza».

Recupero: un percorso in 3 tappe

Non c’è un’unica procedura per accedere alle comunità. In caso di denuncia, condanna o anche solo per percorsi d’affido è il tribunale per i minorenni a decidere in quale struttura mandare il minore. Se si tratta di dipendenze, sono invece di solito le famiglie a rivolgersi al SerT, con il Servizio sanitario nazionale che copre, almeno in parte, le spese presso uno dei centri convenzionati. Il recupero e reintegro dei minori caduti nel baratro della droga consiste di solito in 3 fasi. La prima dura 3 mesi, nei quali il ragazzo deve riprendersi anche dal punto di vista sanitario e farmacologico. Poi c’è la vera e propria terapia, dai tempi variabili, durante la quale la persona riflette sui suoi errori, sperimenta il confronto e ricrea legami di fiducia che, nella maggior parte dei casi, sono andati persi. Solo dopo inizia il graduale reinserimento in società.

I numeri

3.352 La comunità in Italia. Il 66% dei posti letto è al Nord e solo il 10% al Sud. Il 36% delle strutture appartiene a enti non profit, il 23,6% a enti pubblici, il 25,1% a enti privati for profit e il 13,7% a enti religiosi. 88% Le comunità gestite dal titolare del centro. 3.000 I maggiorenni che ogni anno lasciano i centri volontariamente. 29% I minorenni che ammettono di aver sperimentato uno o più stupefacenti (Fonte: Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza).

Lo sciacallaggio sul corpo di Pamela Mastropietro

VEDI ANCHE

Lo sciacallaggio sul corpo di Pamela Mastropietro

Viaggio tra i ragazzi delle baby gang

VEDI ANCHE

Viaggio tra i ragazzi delle baby gang

Riproduzione riservata