Giovanni Falcone: le 10 frasi più famose

Il giudice Giovanni Falcone, con la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta è stato ucciso dalla mafia il 23 maggio 1992 nella strage di Capaci. Lo ricordiamo con le sue 10 frasi più famose

Il 23 maggio 199224 anni, fa morivano nella strage di Capaci il giudice Giovanni Falcone – che aveva 53 anni – sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Il magistrato, già sfuggito a un altro attentato, era atterrato a Palermo da Roma con un aereo dei Servizi Segreti.

Sull’autostrada che collega l’aeroporto alla città, all’altezza dello svincolo di Capaci, esplosero 500 chili di tritolo, uccidendo cinque persone inermi, ma non il sogno che la mafia si possa sconfiggere.

Lo ricordiamo per il coraggio, la riservatezza che caratterizzava lui e la signora Morvillo e il senso del dovere, costi quel che costi. Quando gli chiedevano: «Ma chi glielo fa fare?», Falcone rispondeva sempre: «Spirito di servizio».

Resta la Fondazione Giovanni e Francesca Falcone, nel capoluogo siciliano. Resta il suo esempio, modello per tanti giovani, che entrano in magistratura per onorare le sue battaglie. Restano le sue frasi celebri, dalla definizione della criminalità alla paura – che non aveva – e alla sensazione, veritiera, che l’avrebbero fatto fuori.

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Sulla mafia/1: «La mafia non è affatto invincibile. È un fenomeno umano e come tale ha un inizio e avrà anche una fine. Spero solo che la fine della mafia non coincida con la fine dell’uomo. Bisogna rendersi conto che è un fatto terribilmente serio e molto grave, che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni».

Sulla mafia/2: «Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime, che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere, che hanno interessi “deviati”».

Sulla mafia/3: «Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia».

Sulla paura: «L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza».

Sui nemici, che avevano cercato in tutti i modi di ostacolare le sue indagini: «Se poni una questione di sostanza, senza dare troppa importanza alla forma, ti fottono nella sostanza e nella forma».

Sulla necessità del “fare”: «Che le cose siano così, non vuol dire che debbano andare così. Solo che, quando si tratta di rimboccarsi le maniche e incominciare a cambiare, vi è un prezzo da pagare, ed è allora che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi piuttosto che fare».

Sul senso del dovere: «Perché una società vada bene, si muova nel progresso, nell’esaltazione dei valori della famiglia, dello spirito, del bene, dell’amicizia, perché prosperi senza contrasti tra i vari consociati, per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il suo dovere».

Sulla morte: «Si muore perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno».

Sul lavoro: «Senza un metodo non si capisce niente».

Sul futuro: «Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini».

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