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Compiti a casa, è giusto aiutare i figli o no?

Uno studio finlandese mostra come i bambini che sono aiutati nei compiti sviluppano meno autonomia e autostima rispetto a quelli che li svolgono da soli. Ma capita spesso che gli insegnanti chiedano ai genitori di seguire i figli nel lavoro a casa. Qual è l'atteggiamento corretto? Come evitare di essere troppo iperprotettivi? È possibile aiutare bambini e ragazzi senza interferire nella loro crescita?

E’ la “tentazione” che provano molti genitori: aiutare i propri figli nei compiti a casa. Un atteggiamento che fa parte di un istinto di protezione, col rischio di esagerare e finire col sostituirsi a loro anche nel lavoro scolastico da svolgere a casa, anche durante le vacanze. Il tema dell’aiuto nei compiti è spinoso e ora uno studio finlandese torna a porre la questione: secondo una ricerca della School of Educaltional Sciences and Psychology della University of Esastern Finland, condotto insieme ai Dipartimenti di Psicologia ed Educazione della University of J Jyväskylä e alla New York University di Abu Dabhi, l’aiuto delle madri ha delle influenze (negative) sulla capacità dei figli di portare avanti un incarico in modo autonomo.

Gli studi

I ricercatori, dopo aver analizzato 365 bambini nella fascia di età tra la seconda e la quarta elementare, hanno trovato delle relazioni tra il comportamento delle madri (aiuto, monitoraggio, concessione di spazi di autonomia) e la tenacia dei figli nello svolgimento degli incarichi e nel raggiungimento degli obiettivi. Lo studio, pubblicato su Science Direct, indica un rapporto inversamente proporzionale: più i genitori “assistono” i figli, meno questi sviluppano la capacità di eseguire mansioni da soli.

Un’altra ricerca americana, The Broken Compass: Parental Involvement With Children’s Education (Robinson&Harris), è arrivata a definire esplicitamente “dannoso” l’intervento dei genitori nelle attività scolastiche dei figli, che possono comprendere anche il rapporto con gli insegnanti, la scelta di attività extrascolastiche o delle scuole superiori. Insomma, i genitori sarebbero troppo invadenti e iperprotettivi.

I genitori iperprotettivi o assenti?

Se da un lato si è tentati di aiutare i figli, perché li si vede stanchi, in difficoltà o si vorrebbe che avessero un buon rendimento scolastico, non di rado e soprattutto alle elementari, sono gli stessi insegnanti a invocare un maggior coinvolgimento di madre o padre nel seguire il lavoro svolto in classe dai figli e nei compiti a casa. Come trovare, allora, un giusto equilibrio? “La questione è piuttosto complessa e non bisognerebbe generalizzare, perché esistono situazioni differenti tra loro. Sull’aiuto ai compiti, la risposta più immediata e corretta è che il bambino deve farli da soli, ma nella realtà le cose sono spesso diverse” spiega a Donna Moderna Benedetto Vertecchi, professore emerito di Pedagogia sperimentale all’Università di Roma Tre. “Si deve partire dal presupposto che i genitori incidono in tanti modi sullo sviluppo dell’apprendimento, a volte in modo complementare e coinvolgente, altre in contrasto con quanto la scuola fa e chiede. Quindi occorre fare attenzione” aggiunge l’esperto.

“Le scuole oggi sono molto diverse non solo rispetto al passato, ma anche tra loro, per orari, attività, attrezzature e orientamenti. I genitori, invece, hanno ancora un’idea di scuola legata alla loro esperienza, quindi rischiano di entrare in conflitto con quella attuale” chiarisce il professore, che è anche autore di numerosi libri sulla scuola, tra i quali La Scuola Disfatta (Franco Angeli). “Detto questo, io credo poco che ci sia una maggiore attenzione da parte dei genitori a ciò che fanno i figli, al contrario. Penso che dovrebbero occuparsene molto di più, mentre invece vedo sempre più bambini affidati a dispositivi elettronici, che non possono e non devono essere usati come balie. Madri e padri non possono delegare a smartphone e tablet il proprio compito e ruolo” commenta Vertecchi.

Cosa fare?

Sul tema era già intervenuto anche Daniele Novara, pedagogista e fondatore del Centro PsicoPedagogico, che sulla rivista pediatrica Uppa aveva commentato: “Se un senso i compiti ce l’hanno è quello di aiutare a consolidare degli apprendimenti, stimolare autodisciplina e responsabilizzazione, e l’intervento continuo dei genitori da questo punto di vista ha molteplici svantaggi”. Primo tra tutti la riduzione della possibilità di mettersi alla prova, di impegnarsi per svolgere un incarico, di sbagliare dai propri errori e di fare fatica: “È importante accettare la realtà dei compiti e la necessità dell’impegno personale che richiedono. Certo, si fa fatica!” spiega Novara. Proprio questo sforzo richiesto spesso contrasta con la realtà quotidiana, nella quale smartphone e tablet rendono più facile la soluzione ai problemi e più rapide le risposte ai quesiti.

Il “peso” di smartphone e tablet

Il web permette di trovare risposte a (quasi) ogni tipo di domanda e problema in tempi rapidissimi, che discordano sempre di più con quelli che a volte sono richiesti nello studio o nello svolgimento dei compiti. “In Svizzera il governo federale ha impedito l’uso di mezzi digitali per gran parte della giornata scolastica, in Francia il presidente Macron ha annunciato un decreto per vietare l’uso di telefonini a scuola. Negli Stati Uniti, in molte scuole della Silicon Valley, c’è il divieto dell’uso di mezzi digitali fino a 16 anni: sono le stesse scuole frequentate dai figli dei dirigenti di Apple e Google. Questo perché si vuole privilegiare l’interazione rispetto all’utilità delle macchine” spiega Vertecchi, che aggiunge: “In Argentina, uno studio condotto su genitori e figli che leggono insieme per almeno 10/15′ al giorno ha mostrato un miglioramento nella resa scolastica di bambini e ragazzi. Questo dimostra come i genitori dovrebbero soprattutto occuparsi di questo, più che dei compiti: dovrebbero concentrarsi sul linguaggio dei figli, a partire dal recupero di un maggior dialogo con loro”.

Il compito dei genitori

Da un lato, dunque, non dovrebbero interferire con il lavoro meramente scolastico a casa, dall’altro dovrebbero invece recuperare il proprio ruolo: “Neppure in passato le madri erano sempre in grado di aiutare i figli nei compiti, ma c’era una maggiore interazione. Ora ci sono sempre più famiglie con figli unici e spesso il dialogo è ridotto ai minimi termini, soprattutto in certe fasce sociali. Uno studio francese ha mostrato differenze significative tra nuclei familiari in relazione alle condizioni sociali: già a tre anni i bambini provenienti da contesti più favoriti possono contare su un’esperienza e una capacità verbale 100 volte superiore rispetto a quella maturata in condizioni più modeste. Questo significa che il linguaggio sviluppato in casa ha un peso molto rilevante” spiega Vertecchi. “Bambini e ragazzi apprendono più dalla tv o dai social che non nel dialogo in casa, ma è questo il primo luogo di vero apprendimento su cui si appoggia la scuola, quindi i genitori dovrebbero dedicarsi più a questo che non ad aiutare, eventualmente, nei compiti”.

I consigli

Gli esperti consigliano, in genere, di non “sorreggere” e interferire con il mero lavoro scolastico da completare e consolidare a casa, anche per altri motivi. In primo luogo permette al bambino di verificare se ha realmente capito quanto appreso in classe. In secondo luogo consente di imparare da eventuali errori: la loro correzione da parte della mamma, non aiuterà né il figlio né l’insegnante, che non sarà in grado di individuare eventuali difficoltà. È importante, poi, responsabilizzare i bambini nel corretto svolgimento di tutti i compiti, lasciando che vadano senza il lavoro richiesto se lo hanno dimenticato o non finito. Anche questo, insieme all’autostima nel caso in cui siano stati in grado di svolgerlo correttamente, favorirà la loro crescita. “Le vere spinte all’autonomia, alla responsabilità e all’autostima arriveranno poi con un rapporto più intenso sul piano verbale, preoccupandosi di avere uno scambio di buona qualità con i figli” conclude Vertecchi. 

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