Coraggio, io ne sono uscita

Trattate come schiave dai loro partner. Umiliate. Picchiate a sangue. È successo a 3 milioni di donne. Una su tre non ne parla con nessuno. Ma c'è chi ha detto basta. Guardate questa foto, scattata nei centri antiviolenza. E leggete queste storie. Sono scioccanti, ma testimoniano che fuggire dal terrore e tornare a vivere è possibile

ARIANNA T. 43 ANNI

“Le prime botte me le ha date durante il viaggio di nozze. Io ho pensato che in fondo fosse colpa mia, perché avevo contestato un suo ordine. Mio marito mi picchiava in continuazione. Quando tornava a casa ubriaco, bastava che dicessi: “Non è un po’ tardi?” per essere martellata di pugni. Mi proibiva di vedere i miei genitori, gli amici. La prima volta che sono rimasta incinta dovevo stare a letto per minacce d’aborto, ma lui non voleva, così, appena tornava a casa, mi alzavo. Alla fine, purtroppo, ho perso il bambino. Dopo tre anni di matrimonio, è nata mia figlia. Mi sono illusa che questo l’avrebbe cambiato, ma non è stato così. Non ne potevo più. Una notte sono fuggita con la bambina dai miei, ma lui si è presentato in lacrime, si è messo in ginocchio: “Cambierò” prometteva. Ci sono cascata. L’inferno però è ricominciato. Lui è arrivato al punto di fare i bisogni per terra e obbligarmi a pulire, perché ero la sua schiava. L’ultima volta che mi ha pestata a sangue, sono rimasta quattro giorni in ospedale e non sono tornata più. Ho vissuto 22 mesi in una casa protetta, ora gestisco una bella merceria grazie a una cooperativa della Casa delle donne maltrattate di Imola, faccio merletti, ho tanti amici, vado a ballare. A quarant’anni, ho scoperto la vita“.

GIULIA F. 26 ANNI

“Era bello, dolce, normale.Veniva da una famiglia difficile, col padre in galera, violento, che picchiava la madre. Ma questo l’ho scoperto dopo. Siamo andati a vivere insieme. Ero innamorata, quel ragazzo era il mio unico punto di riferimento. Ma ha cominciato subito a decidere tutto per me. Mi ha trovato un impiego in una copisteria con una grande vetrina sulla strada: in questo modo poteva controllarmi quando voleva. Ero di sua proprietà. Mi obbligava a vestirmi sempre in pantaloni e golfino legato in vita, altrimenti urlava: “Vuoi mostrare a tutti il sedere?”. Se ridevo con gli amici diventava una furia: “A casa facciamo i conti!”. Significava un fracco di botte. Schiaffi e calci quando non volevo fare l’amore, pugni se osavo rispondere, umiliazioni in pubblico, poi pianti e regali grandiosi per farsi perdonare. Una volta ha tentato di strangolarmi, ma sua madre mi ha salvata. Alla fine se n’è andato lui, invaghito di un’altra. È stata una gran fortuna. Io ho ricominciato a vivere, ma non potrò mai dimenticare quella ferita. Da allora, infatti, frequento la Casa delle donne dell’associazione Nondasola di Reggio Emilia”.

ROMINA W. 50 ANNI

“Avevo già un bimbo quando, nel  ’93, ho sposato un operaio italiano. I primi mesi sono stati quasi perfetti, forse perché io, polacca, non parlavo italiano: ero come muta. Non lavoravo, dipendevo in tutto da lui. “Così dev’essere una moglie” diceva mio marito. Poi ha cominciato col vizio del gioco, passava le notti al night e al mattino non ce la faceva ad andare in fabbrica. Arrivavano le lettere di richiamo disciplinare e scoppiavano le liti. Nel frattempo, era nata nostra figlia. Lui voleva che lavorassi e lo mantenessi, ma io non sapevo a chi affidare la piccola. Così giù botte, minacce di morte, ma soprattutto umiliazioni. Diceva a mia figlia: “Affacciati al balcone e urla a tutti che tua madre è una puttana”. Alla fine ho deciso di separarmi, ma è stato tremendo. Quando mio marito ha saputo che volevo lasciarlo, mi ha picchiata davanti alla bambina, ha giurato che mi avrebbe ammazzato. Così sono andata con i bambini in un appartamento segreto della Casa delle donne di Reggio Emilia. Lì mi hanno aiutata a ricostruirmi una vita, a trovare un avvocato e un lavoro. Ora sono libera: vivo con i miei figli in un appartamento del Comune e faccio l’operaia. Storie d’amore, però, non ne ho più volute”.

CECILIA B. 34 ANNI

“Vivo da nove mesi in una casa protetta con due dei miei figli, una bambina di 8 anni e un maschio di 13. Il più grande, di 15 anni, è rimasto con il padre. Mi rifiuta perché alla fine di tanti tormenti ho reagito innamorandomi di un altro. Il mio matrimonio, in realtà, era morto da tempo, ucciso dalle botte e dal disprezzo che ogni giorno lui mi gettava addosso. Ci siamo sposati giovani, io avevo 18 anni ed ero già incinta di sette mesi. Mio marito faceva il muratore, pensava solo al lavoro e a bere con gli amici. A casa tornava tardi, per lui non esistevo: mai fatto passeggiate, niente ristorante, niente cinema. Niente di niente. La prima volta che mi sono lamentata con lui della mia solitudine, la sua reazione è stata cieca, violenta. Ogni volta che protestavo mi picchiava, era il suo modo di discutere. Andavo in giro con gli occhi neri e il labbro spaccato. Davanti ai miei figli mi sminuiva sempre: “La mamma è una strega, non capisce niente”. Poi un giorno mi ha rubato il cellulare e ha scoperto che telefonavo a un altro. Quando sono tornata a casa mi ha aggredita con un portachiavi a forma di corno, mi ha ferito in testa, sul petto, sulla schiena. Se i vicini non l’avessero immobilizzato, mi avrebbe ammazzata. Ero una maschera di sangue. Quando ho sporto denuncia, il maresciallo mi ha dato una mano: “Vada alla Casa delle donne”. È stata la mia salvezza!“.

ELENA M. 38 ANNI

“Avevo solo 22 anni, ero rimasta vedova con un bambino piccolo. Quando l’ho incontrato, ero fragile, vulnerabile. Nei primi mesi c’è stata grande passione, anche erotica. Poi lui ha cominciato a fissarsi con strane, ossessive fantasie: voleva che io andassi a letto con altri uomini insieme a lui. Per me era pazzo, glielo dicevo, e lui mi pestava. A sangue. Poi origliava dietro la porta del Pronto soccorso per sentire se per caso lo stessi denunciando. Una volta l’ho minacciato davvero: se mi tocchi, vado dalla polizia. Mi ha dato una testata in faccia rompendomi il setto nasale. “Vuoi denunciarmi?” diceva. “Fallo! La tua parola contro la mia. Io dirò che sei una pessima madre, ti farò togliere tuo figlio”. E io zitta, anche perché non avevo il becco di un quattrino, né un rifugio. Intanto però mettevo i soldi da parte per la fuga e dopo due anni, grazie all’aiuto di una zia, sono riuscita a comprare una casa. Allora ho trovato il coraggio di denunciarlo. Anche perché all’ultima aggressione aveva assistito un ragazzo, che ha testimoniato contro di lui. Il mio ex marito è stato condannato in primo grado per violenze fisiche e sessuali. Eppure da quando sono scappata non ha mai smesso di perseguitarmi. Mi pedinava, mi mandava lettere deliranti, terrorizzava tutti gli uomini che mi si avvicinavano. Chiamano stalking questa presenza assillante. Prima o poi andrò all’estero a rifarmi davvero una vita“.

ELISABETTA R. 43 ANNI

“Botte, pugni e schiaffi per sei lunghi anni. Mio marito mi picchiava per colmare il suo complesso d’inferiorità. Era un ragazzo semplice, di origine caraibica,  quando si trattava di discutere non eravamo allo stesso livello culturale. Lui se ne accorgeva e impazziva. Ma più dei pugni, mi ha ferito la costante, diabolica, demolizione psicologica della mia persona: “Sei brutta” mi ripeteva. “Non vali niente, nessun altro uomo ti prenderebbe, tranne me”. Me l’ha detto così tante volte che alla fine mi ha convinta: ero uno zero. Il sentirmi una nullità mi ha impedito di ribellarmi. Fino a una vacanza estiva dove abbiamo toccato il fondo. Ero arrivata al punto di dormire con un coltello sotto il cuscino. Allora mi sono rivolta alla Casa delle donne di Bologna. Qui finalmente ho trovato persone capaci di ascoltare il dolore e le difficoltà dell’altro. Da sola non ce l’avrei mai fatta. In un gruppo di auto-aiuto, sì. Ho conosciuto altre ragazze nella mia situazione, mi sono rispecchiata in loro. Erano belle, simpatiche, intelligenti, non meritavano quello che avevano subito. Non lo meritavo neppure io. Più tardi ho scoperto che mio marito non era cambiato: la sua nuova compagna, da cui aveva avuto un figlio, lo ha trascinato in tribunale per maltrattamenti”.

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