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Cosa prova un malato di Alzheimer

L'Alzheimer coinvolge in Italia 700.000 pazienti e milioni di “caregivers”, familiari che si prendono cura giorno e notte di chi soffre di questa malattia. Lo scrittore Flavio Pagano ci racconta le storie di un'umanità che non conosciamo. Qui pubblichiamo la diciannovesima puntata

Come vive, cosa prova un malato di Alzheimer? Qui la ricostruzione di un momento della sua vita

«Quella notte non riuscivo a dormire, ed era una cosa insolita per me.

Mi alzai dal letto di scatto. Fu come se una forza travolgente mi avesse sollevata all’improvviso. Avvertivo dentro di me un’energia che non avrei mai immaginato di possedere ancora. Cominciai a camminare ma non avevo idea di dove stessi andando, e non mi rendevo più nemmeno conto di trovarmi a casa mia. Tuttavia continuai ad avanzare con quel passo deciso, le mascelle serrate e i pugni stretti, rabbiosamente.

Non ero stanca, eppure affannavo. Mi sentivo tutta agitata, nervosa, e continuavo a chiedermi perché stessi facendo quello che facevo come se stessi assistendo a un film del quale io stessa ero la protagonista. Finché, a un tratto, misi a fuoco la vera sensazione che provavo: avevo paura. E anche se non sapevo da cosa, stavo fuggendo.

Anche il buio mi faceva uno strano effetto. Era come se mi ostacolasse fisicamente, come se mi pesasse addosso. Ci remavo dentro con le mani, per avanzare dovevo vincerne la resistenza. Mi sembrava di essere io a reggere la notte, ma non ce la facevo più e quasi mi schiacciava.

A un certo punto urtai una sedia, ma non cadde. E non caddi nemmeno io che rimasi aggrappata con le mani allo schienale. Immobile, ascoltavo il mio respiro nel buio. Ma mi faceva paura anche quello.

«Madonna mia, che sta succedendo?» mi disperavo. «Aiutami!».

All’improvviso sentii un rumore di passi, e allora credetti di essere perduta.

Se volevo salvarmi, dovevo assolutamente scappare. Me lo diceva il mio istinto, l’unica parte di me che funzionava ancora.

Ma intanto i rumori intorno a me si moltiplicavano. Sentii una porta che si apriva e poi sbatteva. Altri passi. E a un tratto una voce gridò: «Chi è?».

Nel buio vidi agitarsi un’ombra. Stavano per aggredirmi, allora presi la prima cosa che mi capitò a portata di mano e la scagliai nella direzione da cui proveniva quella voce.

«Mamma, ma che fai? Ma sei impazzita?» disse l’ombra con una voce rauca e, quasi nello stesso istante, s’accese una luce che mi colpì come uno schiaffo e mi accecò.

«Disgraziati!» risposi, gridando a mia volta: «Che volete da me, delinquenti!».

Sentivo parlare. O forse erano echi delle voci di prima. Ma in tutta quella confusione non distinguevo i volti e non riuscivo a contare le persone, il che mi faceva infuriare ancora di più. La paura si trasformò in rabbia. Mi sentivo bruciare dentro e allora cominciai a strapparmi i vestiti mentre la rabbia mi riempiva così velocemente che già traboccavo e non potevo più trattenerla.

«Mamma…» gemette l’ombra, «ma perché ti stai spogliando? Cosa fai?». Poi si avvicinò. Allora afferrai la teiera sul tavolino accanto a me e lo colpii in faccia. Vidi uscire il sangue dal sopracciglio.

Lui gridò per il dolore, ed ebbe un moto infantile di protesta: all’improvviso sembrava un bambino, aveva persino un che di familiare.

In quel momento, all’improvviso, a tradimento, qualcuno mi afferrò alle spalle e mi bloccò: e quello fu terribile. Tentai di liberarmi con tutte le mie forze. A uno gli sputai in faccia, a un altro, se era un altro, gli diedi un morso sulla mano. Lottai, finché le forze mi vennero meno.

Sentii un dolore acuto, intenso e breve nel braccio, poi mi sentii svenire.

Caddi quasi a peso morto ma le braccia che prima mi avevano immobilizzata ora mi sostenevano. Parecchie persone parlavano intorno a me. Mi girava la testa. Guardando dritto vedevo il soffitto: in che posizione ero?

Mi stavo calmando, ma in testa avevo un gran vuoto. Dalla bocca mi usciva una specie di lamento. Un balbettio senza senso.

Mi diedero un bicchiere d’acqua, ma quasi mi strozzai: non sapevo neanche più ingoiare.

Alla fine crollai del tutto. Gli occhi mi si chiusero da soli. E sapete qual è la cosa più strana? Che proprio mentre svenivo mi sembrò che in realtà mi risvegliavo. Che uscivo da quell’incubo.

Non lo so spiegare bene, ma fu perdendo i sensi che li recuperai.

Adesso non affannavo più, il cuore s’era calmato. Mi sembrava di vivere uno stato di grazia: «La Madonna ha fatto il miracolo! M’ha salvata…» mormorai, e intorno a me mi sembrò che a quelle parole tutti si commuovessero un po’.

Ora li riconoscevo. C’era mio figlio, e mi guardava con certi occhi preoccupati. Ma si capiva che mi voleva bene.

«Grazie…» mormorai. E la mia mano, dal letto, lo salutava».

 

Questa puntata di #maisoli è dedicata alla memoria della valorosa e dolcissima Titina, che ispirò il mio articolo La mia mamma malata mi ha accompagnato all’altare, e che ci ha da poco lasciati dopo lunga malattia di Alzheimer.  Come sottolineato dalla Federazione Alzheimer Italia nel rapporto «Donne e Demenza, sfida globale» si evidenza come siano proprio le donne a sopportare il peso della crisi globale della demenza: secondo l’OMS, infatti, la demenza è tra le prime 10 cause di morte per le donne nel mondo.

 

Lo scrittore Flavio Pagano ha cominciato a occuparsi di Alzheimer quando la malattia ha toccato la sua vita, colpendo la madre, esperienza da cui è nato il romanzo-verità Perdutamente (Giunti). Questo è il diciannovesimo intervento di una serie, “Mai soli”, che vuol raccontare e ascoltare l’universo parallelo che è l’Alzheimer. L’universo di coloro che ne sono colpiti e di chi li assiste, perché curare vuol dire prima di tutto prendersi cura dell’altro. 

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1. Il giorno che mia madre non mi ha riconosciuto

2. L’istituto dove i pazienti si sentono a casa

3. Accanto a chi è malato fino all’ultimo respiro

4. La mia mamma malata mi ha accompagnato all’altare

5. La nonna che non ricorda mai che giorno è

6. Quando si arriva a dire: «Non ce la faccio più»

7. Com’è vivere accanto a chi c’è ma non c’è più

8. Perché la casa di riposo fa paura

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