Eravamo innocenti, siamo finiti in carcere

Cosa accade a una persona dalla vita normale quando va in galera
senza colpa? Lo abbiamo visto in tv,
in una fiction appena andata in
onda. E ce lo confidano i protagonisti di queste pagine. Che dall'incubo sono riusciti a uscire. Pagando alla sofferenza un prezzo altissimo

>>Maria, accusata di spaccio

«Sono passati cinque anni, ormai. Ma dimenticare

non posso, non ci riesco. Il rumore del ferro

dei secondini sulle sbarre, le perquisizioni notturne, i controlli umilianti ogni volta che facevi la doccia…».

Il 24 novembre 1999 ha cambiato per sempre la vita di Grazia Maria Gazzini, 47 anni, milanese trapiantata

in Sicilia, due figli, vedova di un compagno che, al tempo dei fatti, era malato di tumore ai polmoni. Sembrava

un giorno qualunque, quel 24 novembre, invece alle 5

di mattina tre poliziotti si sono presentati nella sua

casa di Pachino e hanno messo tutto all’aria. Cercavano droga. «Erano a disagio perché venivano sempre a comprare cd nel mio negozio di dischi» ricorda Grazia Maria. «Con gli occhi bassi, mi hanno detto di

seguirli al commissariato. Da lì, dopo un interrogatorio surreale, sono stata trasferita nel carcere di Catania, in stanza con due mafiose. La testa mi pulsava.

Ma che ci facevo in quell’inferno, io, una persona per bene? Solo allora ho capito: mi avevano scambiato per qualcun altro». Vero. Grazia Maria Gazzini era finita nelle indagini sul

clan del camorrista napoletano Ciro Alfieri. Per errore. E per colpa di una serie di esili coincidenze. Malgrado vivesse

da sette anni a Pachino, aveva conservato la residenza in via Gola a Milano, nella stessa palazzina dove

abitava una spacciatrice del clan che, secondo un pentito, “forse” si chiamava Maria, “Maria la cicciona”.

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Anche Grazia Maria in quel periodo era in sovrappeso, aveva il viso gonfio a causa del diabete. «È stata mia figlia a scoprire la verità» dice con amarezza. “Mamma”, mi ha detto, “lo sanno tutti che nel palazzo in via Gola vive una spacciatrice“. Forte di questa semplice verità, ho scritto una lettera al pubblico ministero della Procura di Milano. Sono stata fortunata, mi ha presa sul serio. Ha fatto vedere al pentito la foto della spacciatrice, lui

l’ha riconosciuta e io, dopo un mese di galera e tre agli arresti domiciliari, sono tornata libera. Nel frattempo mio marito aveva smesso la chemioterapia e si era aggravato, i miei affari erano andati a rotoli. Mi hanno dato un risarcimento di 35 mila euro. Pensare

che ne avevo spesi 10 mila soltanto di avvocato!».

>>Daniele, dietro le sbarre per sette anni

«La fiction L’uomo sbagliato, con Beppe Fiorello, l’ho vista in anteprima alla Rai» dice Daniele Barillà, ex imprenditore di Nova Milanese, “sopravvissuto” a 7 anni e mezzo di carcere. Da innocente. «Sullo schermo scorreva

la mia storia, anche se romanzata, e ancora una volta ho provato rabbia, dolore, incredulità». Non ha pace, l’uomo sbagliato, gli sembra che nessuno gli renda giustizia. Ha ricevuto dallo Stato un indennizzo di 2 milioni di euro e ne aspetta altri 2. È sposato e ha un bambino di 5 mesi. Ma i suoi 30 anni, i sogni, il padre morto mentre era dietro alle sbarre, nessuno glieli può restituire: quel mondo è stato incenerito da un errore giudiziario, denunciato sin dall’inizio da un giornalista che ha creduto in lui, Stefano Zurlo de il Giornale.

Oggi l’uomo sbagliato ha 43 anni, una cefalea cronica, quattro ernie del disco

non curate in prigione. Fantastica di “lavorare in mezzo alla gente”, ma dal 23 luglio 1999, quando è tornato un uomo libero, non ha più avuto un’occupazione. Quello che è successo a lui, potrebbe capitare a chiunque. Immaginate la scena. Il 13 febbraio 1992, il piccolo imprenditore guida la sua auto nuova, una Tipo rossa, e viene fermato durante un’operazione antidroga a

Nova Milanese. I carabinieri del Ros di Genova, comandati dal colonnello Michele Riccio, stanno cercando una macchina identica a quella di Barillà. Apparterrebbe al braccio destro di un narcotrafficante che è stato catturato con 50

chili di cocaina.

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«Ho protestato invano la mia innocenza» racconta Barillà. «Ho portato testimoni che hanno descritto per filo e per segno la mia giornata. Ho fatto scioperi della fame, rifiutato patteggiamenti. Risultato? Mi hanno trasferito 24 volte, come si fa con i rompiscatole, e condannato a 15 anni. Un giorno, nel 1997, ho letto che

il colonnello Riccio e la sua squadra erano finiti sotto indagine per peculato, falso, soppressione di documenti e altro. Tutto il loro operato sarebbe stato esaminato dagli inquirenti. Stai

a vedere, mi sono detto, che riaprono anche

il mio caso. È bastato che un pubblico ministero ordinasse a un bravo poliziotto di verificare

le affermazioni di sei pentiti: sostevano che il vero colpevole fosse un trafficante, oggi condannato all’ergastolo, con un’auto uguale

alla mia. Un banale controllo al Pra ha

fatto crollare l’assurda montagna di errori».

>>Francesco, nei guai per un documento

Di cosa è responsabile l’ex detenuto Francesco Ecca, 45 anni, sardo, residente a Varese? Semplice: il 15 febbraio 1991 ha smarrito carta d’identità e codice fiscale. E per questo, malgrado

la denuncia ai carabinieri, si può finire in galera. Soprattutto se

ci si affida a un avvocato che non

si presenta in aula il giorno del processo e non ricorre in appello contro una sentenza sbagliata. «Forse all’inizio ho sottovalutato la faccenda» riflette oggi Ecca. «Qualche mese dopo aver perso i documenti ho cominciato a ricevere strani estratti conto, comunicazioni di amministratori e commercianti a me sconosciuti. Sono andato in banca a chiedere spiegazioni ma non sono riuscito

a capire cosa fosse successo. Certo, non sospettavo che, grazie

ai miei documenti, un altro uomo

si fosse appropriato della mia identità, avesse aperto società e fatto debiti milionari». Un bel

giorno, però, Ecca riceve l’invito

a presentarsi al tribunale di

Novara come unico imputato in

un processo per bancarotta fraudolenta. Guarda le carte, non capisce nulla e si rivolge a un’avvocatessa al settimo mese di gravidanza. «Pancia o non

pancia, ero sicuro che tutelasse i miei interessi!» si agita. «Invece il 23 gennaio 1995, tornando dall’asilo di mio figlio, trovo i carabinieri. “Lei è in arresto” mi dicono, proprio come nei film. Non riuscivo a crederci: cosa avevo fatto? Mi sono ritrovato in una cella con quattro rapinatori napoletani.

Mangiavo e facevo

i bisogni in tre metri quadrati di spazio, davanti a tutti. In quel

buco sono rimasto un anno e un mese. Avrei dovuto scontare

altri due anni, ma per fortuna ho trovato un bravo avvocato di Varese, Alfonso Brighina». La salvezza arriva da un secondo processo, stavolta per assegni rubati. In questo caso Ecca, o meglio chi si spaccia per lui, è la parte offesa. Il sardo viene portato in aula in manette e subito

tutti si accorgono dello scambio di persona. Ad appropriarsi del

suo nome era stato un comasco, Piergiorgio Marinoni, che viene arrestato. Il 14 febbraio 1996

Ecca torna finalmente libero.

E più leggero di prima: ha perso il lavoro, e anche la moglie e il figlio che si sono trasferiti in Sicilia. In compenso, lo Stato non gli ha ancora versato un euro di risarcimento.

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