Lavorare e fare la mamma è troppo faticoso!

Trent'anni dopo il femminismo, riemerge un ostacolo che sembra ancora insormontabile: essere madri. Schiacciate tra famiglia
e ufficio, discriminate, con la carriera bruciata, oggi le donne sono esauste. Risultato: una su cinque lascia l'impiego dopo il primo
figlio. E più della metà rimpiange l'epoca in cui si stava a casa

Comiciamo dal sondaggio. Ecco cosa ci avete risposto voi.

>>Le è mai capitato di pensare: beati i tempi in cui le mamme stavano a casa a curare i figli?

54% Sì; 46% No.

>>Ha mai scelto di rinviare una maternità?

86%No; 14%Sì.

>>Se sì, per quale motivo?

52%: per paura di non riuscire a conciliare figli e lavoro

20%: per paura di perdere il lavoro  5%per paura di non fare carriera

23%: altro

>>Il mondo del lavoro discrimina le donne con figli?

63% Sì; 37%No

>>Se ha risposto sì, secondo lei perché succede?

76%: perché sul lavoro non basta essere brave, bisogna offrire disponibilità totale in termini di tempo;

24%: perché c’è un pregiudizio per cui una madre si impegna meno nel lavoro

>>È possibile essere madri e professioniste di successo?

80%: Sì ma bisogna avere molti aiuti;

20%: No alla fine si è costrette a scegliere.

Negli ultimi anni, ammettiamolo, le donne si sono un po’ montate la testa. Hanno creduto di poter lavorare come gli uomini, fare carriera, e pure allevare bambini. Caricandosi tutto sulle spalle: stress in ufficio, code al supermercato, compiti dei figli, visite dal pediatra, mariti viziati che al massimo portano fuori il sacchetto della spazzatura.

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Si sono illuse di essere mamme bioniche, con dieci braccia, proprio come la stremata dea Kalì, apparsa qualche mese fa sulla copertina del settimanale americano Newsweek, in occasione dell’uscita di un libro provocatorio. Quello di Judith Warner, biografa di Hillary Clinton. Titolo: Perfect madness (pazzia perfetta), ovvero la vita infernale cui è costretta una madre che, giustamente, non vuole sacrificare né affetti né lavoro. Siamo alla vigilia di un grande ripensamento? I segnali di crisi non mancano. L’Istat registra che una donna su cinque, dopo l’arrivo di un figlio, fa dietro-front: volontariamente, o costretta dall’impresa, torna a casa ad accudire il suo piccolo.

E più della metà delle mamme che lavora rimpiange “i bei tempi” in cui ci si dedicava soltanto alla cura dei bebè. Lo rivela il sondaggio commissionato da Donna Moderna all’istituto di ricerca Swg. Le donne che si destreggiano tra lavoro e figli sono forse pentite? Certo che no. Sono semplicemente sfinite. Sette madri su dieci, ancora oggi, non hanno nessuno che le aiuti in casa. Tra faccende domestiche, fabbrica o ufficio, secondo l’Istat, sgobbano 90 ore alla settimana, compresi i weekend. «È un percorso a ostacoli, sempre più faticoso» dice Cinzia Cinque, giornalista e madre di due bambini, autrice del manuale di sopravvivenza Una donna per tre – Come conciliare famiglia, casa e lavoro (Franco Angeli).

«Chi non ha vissuto quei momenti da incubo, con un incarico urgente da sbrigare, la scuola che ti chiama perché tuo figlio ha 40 di febbre e nessuno che lo vada a prendere? Per farcela, l’importante è non perdere la calma. Bisogna imparare a delegare: all’asilo, ai nonni, alla babysitter». E chi proprio non ce la fa? «Deve avere il coraggio di ripensare al peso del lavoro nella propria vita» avverte Cinque. «Meglio, per esempio, chiedere un periodo di part-time». Comunque, riesce a lavorare solo una piccola maggioranza delle madri. Il 55 per cento, contando quelle che hanno un solo figlio, ma la percentuale scende al 37 per cento quando i bimbi sono almeno tre.

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>>Quanti i pregiudizi dei maschi!
Qual è il vero ostacolo? «Il pregiudizio maschile» scuote la testa Maria Cristina Bombelli, docente della Sda Bocconi, autrice di un recente saggio sulla carriera in rosa dal titolo eloquente La passione e la fatica (Baldini Castoldi Dalai editore). «La maggior parte degli uomini a capo delle imprese pensa ancora che le donne con figli debbano stare a casa. Perché dopo il parto non saranno più “workaholics”, drogate di lavoro, come i loro colleghi maschi, ma distratte dagli impegni famigliari. Molti le invitano ad andarsene o le declassano di ruolo. Ho appena ricevuto una e-mail da una giovane operaia disperata che, quand’è tornata in fabbrica, alla fine della maternità, si è ritrovata con una mansione inferiore. Invece che alla catena di montaggio l’hanno messa a lavare i piatti».

Trent’anni dopo il femminismo, le prevenzioni resistono. Lo confermano, senza paura di apparire politicamente scorretti, 1.500 imprenditori intervistati dalla Camera di Commercio di Milano. Il 77 per cento ha dichiarato che la maternità rappresenta un grosso peso nella vita di un’azienda: le lavoratrici sono meno disponibili e fanno molte assenze per le malattie del bambino. Questo, concludono gli imprenditori, giustifica stipendi più bassi degli uomini e uno scarso successo nella carriera. Simona Scarpaleggia, oggi responsabile di un megastore Ikea di Roma e madre di tre figli, è la dimostrazione del contrario.

Ma non è stato facile. «Quando sono nati i miei primi due bambini ero l’unica manager donna in un’azienda di impiantistica» racconta. «Allora, la maternità non ha influito sulla valutazione delle mie capacità professionali. Il problema è sorto con il terzo figlio, in un’altra azienda. Prima della gravidanza ero considerata tra i dirigenti con maggiore potenziale di crescita. Dopo il parto, anche se il mio comportamento era identico, il mio potenziale è sceso a zero. Non facevo più parte della lista di chi avrebbe potuto fare carriera. Tre figli mi rendevano inaffidabile. Così, due anni dopo, ho cambiato lavoro».

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>>Troppi sacrifici per la carriera

Malgrado i pregiudizi, le donne che   fanno carriera sono sempre di più. «Oggi occupano quasi il 20 per cento delle posizioni di lavoro medio alte (ma non dei vertici)» dice Giovanna Porcaro Sabatini, vicepresidente dell’Unionquadri e segretaria nazionale delle Donne Quadro. «Ma a prezzo di enormi sacrifici: o non fanno figli, o ne fanno uno solo, e dopo i 35 anni. Grazie al loro stipendio, possono affidare i bambini a una babysitter e la cura della casa a una colf. Sono privilegiate, certo, ma anche forzate del lavoro. Devono essere disponibili in qualsiasi orario, vivere con la valigia pronta, come i loro colleghi uomini che da sempre si considerano liberi da impegni famigliari». In Gran Bretagna le hanno soprannominate “twenty minutes mothers” perché, vuole la leggenda, riescono a dedicare venti minuti al massimo ai propri figli.

Arrivano a casa tardi, elargiscono baci, e si addormentano leggendo le fiabe al bambino più piccolo. Finché qualcuna decide che la carriera non è poi tutto nella vita. È successo persino a Giovanna Porcaro Sabatini. «Per anni sono stata l’unica donna quadro della Telecom presente alle riunioni di vertice» racconta. «Ma, quando gli impegni sono diventati divoranti,  ho scelto i miei figli».

>>In azienda non c’è flessibilità

Dunque non c’è alternativa: resistere o fuggire? «Neanche per sogno» chiarisce Porcaro Sabatini. «Bisogna convincere le aziende a modificare gli orari. Chi l’ha detto che una riunione si debba tenere per forza dalle sei di pomeriggio in poi? O che una dirigente, se ha il bambino malato, non possa lavorare da casa con il computer?». Sembra facile, ma non lo è. «In Italia» spiega Maria Cristina Bombelli «vale di più il tempo passato dietro a una scrivania che la qualità dei risultati». Perché, come conferma l’80 per cento delle donne del nostro sondaggio, sul lavoro non basta essere brave, bisogna offrire una disponibilità totale.

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Solo alcune aziende, come Microsoft, Ikea, Bracco, Kodak, Vodafone sperimentano la flessibilità: telelavoro, part time, cambio di turni, possibilità di assentarsi e poi recuperare le ore. «Sono cinque anni che la legge 53 sui congedi parentali offre incentivi alle imprese che applicano orari più elastici per le lavoratrici con bambini» spiega Nirvana Nisi, segretaria confederale e responsabile Pari opportunità della Uil. «Peccato che i 20 milioni di euro l’anno stanziati siano rimasti inutilizzati. Esistono anche fondi per l’aggiornamento delle madri che tornano a lavorare, ma siccome l’azienda che li riceve è sottoposta poi a controlli, nessuna li richiede».

>>Stato e mariti non aiutano

Se in azienda le mamme sono svantaggiate, fuori non va meglio. Non tutte possono contare sull’asilo nido. Quelli pubblici scarseggiano. Infatti, dice l’Istat, accolgono solo il 15 per cento dei bambini. Chi può permetterselo versa oltre 500 euro al mese a un nido privato, oppure ricorre ai nonni. E quando i nonni non ci sono? Semplice, le mamme mollano il lavoro. «Una follia» sbotta Federica Rossi Gasparrini, leader storica della Federcasalinghe, e vicepresidente del Movimento mondiale delle mamme. «Siamo una nazione con 1,2 figli per coppia. Se non vogliamo scomparire, lo Stato deve sostenere concretamente le madri che per qualche anno scelgono di crescere i figli, aiutandole poi a ritrovare un’occupazione. Servono asili, la detrazione delle spese per le babysitter, e mariti più disponibili. La Spagna ci sta già provando».

L’11 luglio, infatti, il Parlamento di Madrid ha approvato un nuovo articolo del Codice civile. I coniugi, recita la legge, devono condividere le responsabilità domestiche e la cura dei figli. D’ora in poi, insomma, una moglie potrà chiedere la separazione se il marito non fa la spesa o non cambia i pannolini. Attenti, signori uomini. La riscossa delle mamme che lavorano potrebbe cominciare proprio da qui.

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>>Il 6 per cento delle neomadri viene licenziata  

Ma chi sono le madri che lasciano il posto di lavoro quando nasce un figlio? L’indagine più recente riguarda 50 mila donne intervistate dall’Istat e rivela una realtà inquietante. «Tornano a casa le più povere, con basso titolo di studio e un’occupazione precaria» spiega Linda Laura Sabbadini, direttore centrale dell’Istat. «Tre madri meridionali su dieci, un anno e mezzo dopo la nascita del bambino,

non ha più un lavoro». E una percentuale non indifferente di donne, il 6 per cento, dice di essere stata licenziata dopo l’arrivo di un bebè. In un altro 23 per cento dei casi il contratto era scaduto, oppure l’impresa era fallita. Però il 69 per cento delle mamme, cioè la stragrande maggioranza,

dichiara di essersene andata per propria scelta. Il motivo? Due su dieci dicono di non riuscire a

conciliare lavoro e famiglia, mentre il 60 per cento spiega che vuole più tempo per stare con i figli.

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