Metti via quel cellulare, mamma

  • 20 09 2017

In casa mia si sente urlare la stessa frase che risuona in gran parte delle case italiane: “Metti via quel cellulare”. Solo che a pronunciarla sono le mie figlie rivolte a me e mio marito. Non hanno l’età per possedere o desiderare uno smartphone, ma quella per viverlo come ladro di attenzioni.

L’annuncio che il cellulare potrebbe diventare uno strumento didattico ha creato scompiglio tra i genitori. Non tanto per il timore che i docenti non sappiano modificare il metodo di apprendimento al fine di integrare questo device. Quanto per la convinzione che i ragazzi si metterebbero a chattare e a girare video persino durante le lezioni.

Il problema non è il cellulare a scuola, ma il cellulare in sé. Che è divenuto la preoccupazione numero 1 dei genitori di oggi, inermi spettatori del consumarsi della giovinezza dei loro figli davanti allo schermo di un telefono. 

Nessun adulto pensa che con questo oggetto si possa arrivare a una convivenza sana.Tantomeno nessuno pensa che se ne possa fare a meno. Insomma, siamo una generazione di tecno-dipendenti-sconfitti.

In casa mia si sente urlare la stessa frase che risuona in gran parte delle case italiane: “Metti via quel cellulare”. Solo che a pronunciarla sono le mie figlie rivolte a me e mio marito. Non hanno l’età per possederne o desiderarne uno, ma quella per vivere il telefono come ladro di attenzioni.

La loro critica ci ha fatto riflettere. Se riusciremo ad autodisciplinarci, abbiamo pensato, ce la faranno anche loro quando le parti si invertiranno. Così abbiamo iniziato a darci delle regole.

La prima: fuori il cellulare dalla camera da letto. Alla sera tutti i device elettronici vengono messi in carica nel corridoio, terra franca. 

La seconda: via i telefoni quando si entra in casa. Lo svuotatasche all’ingresso è il luogo in cui vengono riposti, come le pistole all’entrata di un saloon. Se dovessero servire durante la conversazione a cena, per controllare il meteo o l’apertura alare del condor, si prendono e si ripongono. 

La terza: via il cellulare dalle riunioni di redazione, dove ero solita ascoltare i presenti e risolvere i problemi agli assenti, per email. E qualcuno osava pure elogiarlo come multitasking.

La quarta: via ogni notifica sonora o visiva, decido io quando controllare se qualcuno mi ha scritto su Whatsapp o mi ha messo un cuoricino su Instagram. Una sola eccezione sonora per le telefonate, che ormai sono rare come le lucciole in una notte d’estate. Quando arrivano c’è dietro un motivo serio (o un call center che non abbiamo diffidato).

La quinta: quando si prende in mano il cellulare, in casa o per la strada, dichiarare sempre agli altri, e a se stessi, che cosa si intende fare. Pubblicare una foto? Leggere una email? Fare una ricerca su Wikipedia? Controllare le notifiche di Whatsapp e rispondere ai messaggi urgenti? Così si evita il rischio di perdercisi dentro a fare tutto eccetto ciò che era nelle nostre intenzioni.

È ancora presto per fare bilanci. Ma la sperimentazione di pochi giorni mi ha resa ottimista.

In fondo, credevamo di essere destinati alla tele-dipendenza, invece oggi si fa avanti una generazione che accende la tv una volta alla settimana.

Credevamo di non riuscire a vietare il fumo nei locali, invece oggi tutti escono con la sigaretta tra le dita e le temperature sotto zero.

Credevamo che non avremmo più trascorso una serata di sole chiacchiere tra amici. E in effetti è ancora così. Ma sono certa che ben presto tirar fuori il cellulare a tavola sarà considerato maleducazione tanto quanto pulirsi con la tovaglia.

Basta avere il coraggio di mettere regole complesse. Di galateo e di autodisciplina. Ed essere i primi a rispettarle.

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