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E se sbagliassimo a fare mindfulness?

Lo sostiene uno studioso americano in un recente saggio: la pratica di meditazione ispirata al buddismo ha perso la carica spirituale originaria. E sta diventando uno strumento per gestire i sintomi dello stress da lavoro. Senza affrontarne le cause

Macché religione. Il nuovo “oppio dei popoli” è la mindfulness. Questa forma di meditazione di origine orientale – di cui sono fedeli (consumatori) vip come Hugh Jackman, Katy Perry, Oprah Winfrey e Keanu Reeves – sembra ormai imprescindibile per il nostro equilibrio psico-fisico. Quasi una “curcuma della spiritualità” verso cui Ronald Purser, docente di management alla San Francisco University, mette in guardia in Mcmindfulness: how mindfulness became the new capitalistic spirituality (Repater).

UN LIBRO PROVOCATORIOMcmindfulness: come la mindfulness è diventata la nuova spiritualità del capi

UN LIBRO PROVOCATORIO

Mcmindfulness: come la mindfulness è diventata la nuova spiritualità del capitalismo è il libro in cui lo studioso Ronald Purser denuncia l’uso della meditazione come mero antistress invece che come pratica per raggiungere la consapevolezza profonda di sé.

Nel saggio, per ora disponibile solo in inglese, lo studioso argomenta come questa forma di attenzione consapevole sia una banalizzazione del buddismo, una versione annacquata della psicoterapia, «uno strumento di autodisciplina mascherato da autoaiuto». Insomma, una tecnica di concentrazione che della spiritualità originaria ha perso gli insegnamenti etici, la compassione solidale, l’abilità di staccarsi dal falso sé per diventare qualcos’altro: un sistema di adattamento allo stress che non preveda alcun intervento sulla realtà né sulle cause del medesimo stress di cui, secondo l’Organizzazione mondiale del lavoro, soffrirebbe almeno il 50% dei dipendenti, provocando assenze e malattie per un costo di 20 milioni di euro nella sola Unione europea.

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Cerchiamo soluzioni immediate

Ma come si è arrivati a fare di una pratica religiosa millenaria un business milionario? Nel 1979 il biologo americano Jon Kabat Zinn introdusse alcuni principi del buddismo zen nel suo “metodo di riduzione dello stress attraverso l’attenta consapevolezza”, rivolto a pazienti afflitti da dolore cronico. Ma quello che era nato come un percorso per sopportare la sofferenza è poi diventato una prassi di repressione del disagio. «Kabat Zinn era americano e dunque parte di un contesto culturale che non si chiede “Questo che significato ha?”, ma solo “Funziona?”» spiega Franco Bertossa, fondatore dell’Associazione Culturale ASIA – Associazione Spazio Interiore e Ambiente di Bologna, che pone in dialogo buddismo e filosofia occidentale. «D’altra parte, lui stesso ammise che il suo obiettivo era l’aiuto terapeutico, mentre gli aspetti più profondi del messaggio del Buddha vanno cercati altrove».

Nonostante le precauzioni di Zinn, però, la ricetta ha fatto presa sulla società americana, contraddistinta tanto dall’apprezzamento per le soluzioni immediate “how to do” quanto dall’individualismo. «Con l’espandersi di quel tipo di capitalismo si sono andati disgregando modelli e valori condivisi» riassume il sociologo Vanni Codeluppi, autore de Il tramonto della realtà (Carocci editore). «A questo eccesso individualista i social hanno poi offerto una soluzione apparente, promettendo di farci vivere sempre connessi agli altri. In realtà quell’impostazione ha avuto l’effetto di sostituire al “capitale sociale”, cioè le relazioni di cui dispongono i soggetti, un “capitale sociale virtuale” illusorio e ingannevole».

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Non mettiamo in discussione lo status quo

Dall’incontro tra la crescente solitudine delle persone e la costante competizione sul mondo del lavoro è nato un business da 2 miliardi di dollari l’anno solo negli Usa, che dovrebbe rendere le persone più felici, quindi più produttive. In una parola: più adatte al capitalismo. Ecco perché se al Forum di Davos del 2014 perfino gli imprenditori più potenti del mondo hanno seguito una sessione di meditazione con il monaco buddista Matthieu Ricard, se Apple offre ai dipendenti stanze in cui meditare 30 minuti al giorno e Google prevede sessioni di mindfulness intitolate “Search inside yourself”, sorge qualche dubbio sui loro reali obiettivi.

Anche perché un recentissimo studio promosso dalla Scuola di management dell’università di Grenoble ha rilevato che nelle aziende «le pratiche di consapevolezza sono state applicate come una soluzione rapida per affrontare lo stress o un cerotto per gestire i sintomi della pressione sul lavoro. I processi gestionali delle aziende sono discussi raramente». Insomma, la luce della nuova “consapevolezza” non viene mai usata per discutere le decisioni dei manager o il modo di lavorare. Né l’idea di migliorare le organizzazioni o di limitare lo sfruttamento dei sottoposti sembra più contemplata da una pratica che in teoria prescrive ai suoi fedeli il distacco dalle cose materiali.

Vogliamo soprattutto essere produttivi

Il problema è che, spiega Purser, non tutto è riconducibile al nostro modo di reagire alle cose: le ingiustizie esistono, come pure le diseguaglianze. E leggere lo stress come una difficoltà che ognuno deve risolvere da sé annulla le responsabilità del sistema. «Rendere le persone più consapevoli di ciò che sentono può provocare sollievo e perfino guarire da un sintomo» distingue Maddalena Bisollo, esperta in counseling filosofico e fondatrice di Pragma, società di pratiche filosofiche di Milano. «Ma la nostra cultura dovrebbe valorizzare l’impostazione filosofica che l’ha segnata per migliaia di anni e ricordare che prendersi cura di sé ha a che fare con una consapevolezza più radicale: vuol dire chiedersi non solo come smettere di soffrire, ma perché si sta male. Ecco perché conoscersi più a fondo, lungi dal diventare un modo di contenere le nostre emozioni, implica anche il riconoscerne il rapporto con la cultura e la società in cui viviamo e divenirne osservatori critici, meno passivi e manipolabili».

La carica “sovversiva” della meditazione è rimarcata anche da Stefano Bettera, vicepresidente dell’Unione Buddhista europea e autore di Il Buddha era una persona concreta (Rizzoli): «Per quanto la mindfulness sia nata appropriandosi di una pratica buddista, il criterio che la distingue dalla sua americanizzazione è quello della libertà: occorre chiedersi quanto queste pratiche di resilienza si esauriscano in una maggiore produttività lavorativa o dischiudano uno spazio di libertà mentale, in cui sollevare lo sguardo dal nostro Io al contesto in cui viviamo, notandone anche le contraddizioni rispetto ai nostri valori più profondi. Insomma, la pratica deve stimolare la nostra creatività rispetto all’esistente, farci immaginare modi di vita alternativi e focalizzarci sul vivere non da bravi lavoratori, ma buoni esseri umani». Sta tutta qui, in questo modo di vivere il “qui e ora”, la distanza tra l’autentica mindfulness mutuata dalla spiritualità orientale e la versione praticata da noi: Occidentali’s karma.

Mindfulness, un utilizzo “inflazionato”

La mindfulness viene ormai applicata agli ambiti più svariati (con qualche esagerazione). La app di meditazione Headspace, nel suo opuscolo promozionale, dichiara che può essere utile nel trattamento della psoriasi, spiegando che in media «la pelle dei meditatori si è schiarita circa 4 volte più velocemente dei non meditatori». Nancy Bardacke, fondatrice del Mindfulness-Based Childbirth and Parenting di New York, sostiene che cullare “consapevolmente” un bimbo è una pratica gratificante per un genitore. Mentre per la scrittrice e illustratrice Maira Kalman la mindfulness ammanta di nuovo senso addirittura lo stiraggio della biancheria, perché un cassetto sistemato «esprime la ricerca di ordine nella nostre vite caotiche».

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