Cosa fare quando tuo figlio è un piccolo genio

S’interrogano sul senso della vita. Discutono di antimateria e buchi neri. Inventano la macchina per ripulire il Pianeta. Sono alcuni dei bambini ad alto potenziale cognitivo (il 6,5 per cento della popolazione mondiale) e plusdotati (il 2,5 per cento) che Maria Assunta Zanetti accoglie nel LabTalento di Pavia, l’unico centro in Italia dedicato ai piccoli geni. «Di solito li portano qui intorno ai 4-5 anni, quando dal confronto con i coetanei della scuola materna emerge che questi bimbi hanno una marcia in più» dice la psicologa dello sviluppo e dell’educazione, autrice del libro Bambini e ragazzi ad alto potenziale (Carocci Editore). «Ma alcuni arrivano più tardi, magari con una diagnosi di deficit attentivo o di disturbo oppositivo del comportamento. Dopo due giorni di lavoro, i nostri referti ribaltano tutto: ciò che li rende speciali è una dotazione intellettiva straordinaria, che va compresa e supportata».

Quando arriva nel vostro centro da cosa partite per capire se avete di fronte un bambino prodigio?

«Dal quoziente d’intelligenza. Tenendo conto che la media si attesta intorno a 100, si può parlare di un alto potenziale cognitivo solo se il piccolo ha un QI compreso tra 120 e 129 e di plusdotazione se il punteggio raggiunge 130. Ma anche questo non basta per dire che è speciale».

Cos’altro serve?

«Il bambino deve essere dotato di un pensiero creativo: saper produrre nuove idee, uscire dagli schemi, amare la complessità. In più, deve avere predisposizione alla leadership e all’arte, anche in senso non tradizionale: alcuni di questi piccoli detestano colorare o fanno disegni all’apparenza disordinati, che però nascondono una profondità di pensiero fuori dal comune. Infine, se il bimbo va già a scuola, deve dimostrare un talento spiccato per una materia in particolare.

Essendo così dotato, non dovrebbe essere bravo in tutto?

«No. Come tutti, anche i bambini con alto potenziale (o plusdotati) sono più portati per alcuni campi rispetto agli altri. Di solito si distinguono nelle materie scientifiche, ma solo perché a scuola la vocazione letteraria viene mortificata. Ci sono scrittori in erba che a 7-8 anni giocano con le parole: utilizzano forme espressive così stravaganti che gli insegnanti le considerano errori».

Non è facile essere un piccolo genio.

«No, e infatti si parla di “asincronia dello sviluppo”: questi bimbi sono molto più avanti nella dimensione cognitiva rispetto a quella emotiva. Per semplificare, hanno la testa di un adulto e le emozioni di un infante. In più, nel loro cervello c’è una grande attivazione dell’emisfero destro, che provoca una sovraeccitazione difficile da contenere e dei comportamenti sopra le righe, che a volte portano a diagnosi sbagliate».

Che cosa fanno che non va?

«Le racconto che cosa accade spesso con i maschi plusdotati. Durante la lezione, un bambino finisce prima di tutti un problema di matematica. Poi non sa più che cosa fare. Allora si alza dalla sedia, disturba, fa mille domande e viene punito. E col passare del tempo a scuola non ci vuole più andare».

E le bambine, invece, come si comportano se non vengono capite?

«Si adattano alle regole: pensano, leggono o s’intrattengono in qualche modo. Ma non disturbano e così passano inosservate, facendo credere che la genialità sia perlopiù maschile. Invece è distribuita tra i due sessi».

L’alto potenziale dunque non è garanzia di successo accademico?

«No, e nemmeno di felicità. Molti di questi bimbi vivono male la loro condizione perché non si sentono compresi. E anche per i genitori è dura. Perché, oltre a dover rispondere alle incessanti richieste del figlio, si sentono giudicati da amici e parenti, per il comportamento del piccolo».

Anche la scuola sembra inadeguata.

«È così. Non sa riconoscere i talenti e quando lo fa non li valorizza. Il pensiero è: “Che problema c’è se sei super dotato? Vuol dire che avrai successo”. Invece non c’è niente di scontato. Il potenziale deve essere allenato come un muscolo, altrimenti si atrofizza».

Che cosa deve fare un insegnante se lo studente risolve in un minuto il problema?

«Evitare di dirgli: “Trovati qualcosa da fare e non disturbare”. Un bambino plusdotato ha un pensiero subitaneo: arriva subito al dunque, senza rendersi conto dei passaggi mentali che gli hanno permesso di rispondere correttamente. È questo che l’insegnante (o un genitore) deve pretendere: che spieghi passo dopo passo come ha risolto il problema. Se non imparano a fare fatica, alle superiori, si fermano».

Mamma e papà devono parlare al piccolo del suo essere speciale?

«Certo. Trattarlo come un tabù lo spinge a rispondere da solo alla domanda che lo tormenta: “Perché non sono come tutti gli altri?”. Meglio spiegare che sì, ragiona in modo diverso, ma non è il solo a essere differente. E anche se è più avanti, deve continuare a impegnarsi».

E se chiede a che velocità viaggia la luce?

«Bisogna cercare di rispondere, perché è giusto soddisfare la sua curiosità. Ma mai iperstimolarlo, soprattutto a casa, dove a differenza che a scuola, deve potersi annoiare. Il primo compito dei genitori, quindi, è sintonizzarsi con le sue emozioni, e non pretendere da lui una performance continua».

Vale anche per il futuro?

«Sì. Le aspettative non devono rispondere alle esigenze della famiglia, ma a quelle del piccolo. Il segreto è educarlo alla ricerca della felicità, non del successo. Anche un bambino che a 7 anni estrae il dna della banana deve essere libero di diventare un commesso, se questo è il suo sogno».

A chi rivolgerti

Se sospetti che tuo figlio sia speciale, il primo passo è parlarne con gli insegnanti, nella speranza che siano sensibili al tema della plusdotazione. Fatti raccontare come il bambino si comporta in classe. Se i tuoi sospetti sono confermati, rivolgiti a uno psicologo o a un neuropsichiatra infantile per una valutazione del quoziente intellettivo. Se il valore è superiore alla norma, puoi andare in un centro specializzato come il LabTalento dell’Università di Pavia, che completa la diagnosi con altri test specifici.

La scuola ideale

Grazie all’Accordo di rete La scuola educa il talento, dal 2012 il LabTalento dell’Università Pavia collabora con oltre 30 scuole che investono sull’alto potenziale. Il progetto si chiama STIMA, un acronimo formato dalle iniziali di scienze, tecnologia, ingegneria, matematica e arte. Ma esiste anche una lettura emotiva: sicurezza, talento, intelligenza emotiva, motivazione, autostima. Il requisito indispensabile è che nella classe ci sia un bambino super dotato. I bambini lavorano in classi aperte, a seconda del livello, in gruppi cooperativi e in modalità peer to peer, cioè alla pari. Vengono stimolati a ragionare, così da far fluire il pensiero e creare contaminazioni positive. Gran parte delle lezioni avviene nei laboratori. Dopo un anno di lavoro, tutti gli studenti ottengono voti più alti e sono più motivati. Il potenziale del singolo diventa così al servizio di tutti.

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