L’ossessione degli italiani per il loro cibo, secondo Giuseppe Culicchia

Uno fra i più radicati cliché che riguarda gli italiani è quanto amino parlare di cibo, anche quando mangiano. Lo scrittore dice che sì, siamo incorreggibili sotto questo punto di vista, ma è qualcosa che fa parte di noi. Quel qualcosa che, al terzo o quarto giorno di esperimenti culinari in un Paese straniero, ci porterà sempre a cercare l'unica pizzeria italiana

Chiunque abbia amici o conoscenti stranieri se lo sarà sentito dire: «Solo voi italiani parlate di cibo mentre state mangiando». Affermazione incontrovertibile. Lo facciamo, lo abbiamo sempre fatto e continueremo a farlo. Gli abitanti del resto del Pianeta a tavola forse parlano dei mutamenti climatici o della presidenza americana o dell’andamento della Borsa. Noi no. Noi magari possiamo anche abbozzare un paio di battute su questi temi, ma si tratta di semplici schermaglie per poi arrivare al dunque. «Che ne dite di questa carbonara?». «Io di mio preferisco la cacio e pepe». «Tu il cappone ripieno come lo fai?». «Adesso vi svelo il segreto del mio tiramisù». Ebbene: dato che il 2018 sarà l’anno Onu del cibo italiano nel mondo, e visto che la pizza napoletana è stata appena dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità, non è escluso che per i prossimi 12 mesi anche altri popoli si metteranno a parlare di cibo a tavola, mangiando. E nella fattispecie del nostro cibo. Che per noi è, va da sé, il migliore non solo del mondo ma dell’intero universo. E che solo noi sappiamo cucinare, anche se lo chef inglese Jamie Oliver ha alzato parecchio l’asticella rispetto a quei soldati tedeschi che durante l’ultima guerra mettevano la marmellata sugli spaghetti al posto del sugo.

Vi è mai capitato di vedere un tedesco in Italia a caccia di un ristorante del suo Paese?

Non esiste. Solo noi, in viaggio per lavoro o in vacanza, finiamo per rifugiarci anche all’estero in pizzerie e ristoranti italiani. E il fatto di dover andare incontro alle richieste di eventuali bambini al seguito non è altro che un alibi. Alcuni di noi ci provano a sganciarsi dallo stereotipo dell’italiano “Maccarone m’hai provocato e io mo’ te magno”. Alla vigilia di un soggiorno all’estero dichiarano con aria baldanzosa che mangeranno solo cibo locale. Ottimo proposito. Che talvolta si trova a fare i conti con un cibo locale che proprio ottimo non è. O che comunque dopo un tot di giorni risulta, per così dire, un po’ meno gradevole di quanto si vorrebbe.

Io, alla vigilia di un viaggio Cina, sono partito con le migliori intenzioni

«Stavolta voglio assaggiare tutto: vuoi mettere la vera cucina cinese con quello che ti propongono tanti ristoranti cinesi in Italia?». Dopo un paio di settimane non so cosa avrei dato per una pasta al pesto. Poi, certo, se il cibo italiano che si trova all’estero ha non di rado ben poco a che vedere con la nostra tradizione culinaria, è anche colpa nostra. Anni fa, ospite di un Istituto italiano di cultura, venni condotto in un ristorante italiano di Magdeburgo. E quando fui presentato al cuoco trapiantato in quella fredda città della Germania orientale, mi sentii dire: «Sa, io in Sardegna ero meccanico». A fine pasto, conclusi che forse avrebbe dovuto continuare a esserlo anche lì, anziché mettersi ai fornelli. Sta di fatto che oggi a Parigi esiste forse una sola pizzeria veramente valida, davanti alla quale non a caso c’è sempre la coda. E non di rado quella coda è formata al 90% da Italiani. Italiani disperati. Col miraggio di una semplice Margherita negli occhi, e un’enorme nostalgia per le lasagne della mamma.

Giuseppe Culicchia è scrittore. Il suo ultimo libro è Essere Nanni Moretti (Mondadori)

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