Nonno nipote campagna

Il segreto per diventare centenari

La Sardegna è una delle Regioni dove si vive di più (e meglio) al mondo. Il segreto? L’alimentazione sana e l’aria buona, certo. Ma a fare la differenza è quel senso di appartenenza che alleggerisce i pensieri e la vecchiaia. Lo dice la scienza e lo raccontano qui due anziane che non conoscono la tristezza

Marianna mescola energicamente il contenuto di una pentola e sfoggia un sorriso accogliente. Come spesso solo quello dei “grandi vecchi” può essere. «Papasinos» mi dice con un gesto veloce della mano. Non so cosa sia ma lei non perde la pazienza e me lo spiega, gentilmente: «È un dolce tipico, con noci e uva passa. Uno dei miei preferiti». Alle sue spalle, un raggio di luce del tramonto illumina una tavola che sembra uscita da un quadro: pane Carasau, insalata dell’orto, salsiccia fatta da lei, una caraffa di vino rosso. L’abbigliamento tradizionale di Marianna – il “costume” da giorno, nero in quanto vedova, con il grembiule e il fazzoletto – è in contrasto con i suoi movimenti agili. Perché, anche se non sembra, Marianna di anni ne ha 103 e sta benissimo.

Vive a Dorgali, in Sardegna, in quella parte centro-orientale dell’Ogliastra che, assieme alle isole di Okinawa in Giappone e Ikaria in Grecia, alla penisola di Nicoya in Costa Rica e Loma Linda in California, fa parte della cosiddetta “blue zone”, la zona dove nel mondo si concentra un numero elevato di centenari. Qui raggiungere un secolo è quasi una certezza, una banalità, da superare in scioltezza. Un traguardo che si taglia con il sorriso, con la fierezza di chi ce l’ha fatta, di chi però non si sente alla fine di un percorso, ma solo a una delle tante tappe. Una gran bella tappa.

Il segreto dei centenari sardi

Ma dietro a quei sorrisi dolci e accoglienti di chi ha vissuto storie e vite che a raccontarle sembrano favole, che segreto si nasconde? Negli anni i pastori sardi, come i pescatori di Okinawa in Giappone o gli abitanti del Costa Rica, sono stati messi sotto la lente di ingrandimento. Le loro giornate sono state analizzate. In tanti hanno provato a carpirne i segreti per elaborare un ricetta che possa diventare un modello. Ma al momento l’elisir di lunga vita non è ancora stato scoperto. Saranno i geni, l’aria, l’alimentazione sana, lo stile di vita. Sarà la mescolanza tra tutti questi fattori. O chissà.

«Forti della teoria scientifica, l’unica certezza che al momento abbiamo è che la lunghezza della nostra vita deriva solo per un 5-6 per cento da fattori genetici. Il resto dipende dai comportamenti e dallo stile di vita» spiega Gianni Pes, medico, professore all’Università di Sassari e fondatore dell’Osservatorio della longevità. Da oltre 20 anni studia questo fenomeno ed è lui il padre del termine “blue zone”. «Nel 2000 giravo i Comuni sardi alla ricerca di centenari. A bordo della mia Panda avevo solo una cartina e un pennarello blu. E ogni volta che ne trovavo uno disegnavo un pallino sulla mappa. Alla fine del viaggio ho guardato la cartina: tutti quei puntini avevano tracciato la zona blu».

Il senso di comunità

Pes attribuisce questa longevità in buona parte alle strade ripide e all’attività fisica («Ho sfidato diversi centenari a braccio di ferro e ho sempre perso» ricorda e la foto sopra è la prova), alla cura riservata agli anziani, oltre che a un’alimentazione semplice. Ma tra i comportamenti virtuosi dei grandi vecchi ce n’è uno in particolare che colpisce: il senso di comunità. Una comunità piccola, forte, unita, rispettosa. «Da sempre, fin dalla Preistoria, l’uomo è stato abituato a vivere in gruppo, insieme. E questa era la sua forza, la sua salvezza, oltre che la sua gioia. Insieme sconfiggeva i nemici, insieme cacciava il cibo. Insieme imparava a scrivere. Insieme costruiva le capanne» racconta l’antropologo Pier Guy Stephanopoulos, che da anni studia il fenomeno.


Gli anziani in queste comunità non vivono mai da soli. Ma stanno in famiglie allargate, in cui coesistono 3 o 4 generazioni


 

E qui nell’Ogliastra lo stare tutti insieme è rimasta una bella abitudine. Lo si percepisce dalle parole di Albina, 101 anni a settembre, che vive a Jerzu, in una grande casa ma soprattutto in una grande famiglia multigenerazionale, come succede in queste paesi. Sì, perché il senso di appartenenza è indissolubilmente intrecciato con quello della famiglia, la prima vera comunità. «Io abito con mia figlia» mi racconta al telefono, mentre cerca di insegnare al suo nipotino di un anno e mezzo una poesia in dialetto sardo. «Al piano terra ci stanno mia nipote con suo figlio».

Insomma, in quella casa convivono quattro generazioni. Un mix unico e magico di saperi antichi, racconti, voci, dialetti, ricette, attenzioni che si intrecciano tra loro, creando forza e bellezza. «Sì, perché vivere insieme, sentire di appartenere a una comunità che ti vuole bene e ti rispetta, non è solo fonte di ricchezza e longevità, ma anche di benessere, protezione e armonia. Insomma, di vera e propria bellezza» spiega l’antropologo.

Scene di vita di una comunità

E che sia bello vivere così salta subito agli occhi quando le due centenarie mi raccontano alcune scene di questa vita di comunità, una vita per loro normale, a tratti persino scontata. «Prima che scoppiasse il covid, d’estate, tutte le sere, dopo cena scendevo in piazza a prendere il fresco e a chiacchierare. Stavo lì ore, stavo bene, nient’altro. D’inverno stessa cosa, ma ci trovavamo alle 4» racconta Marianna, chiudendo gli occhi, quasi a sognare che quei tempi possano tornare presto. Altri appuntamenti fissi a cui non mancava mai erano le chiacchiere del mattino in cortile con la sua migliore amica, Antonia, una volta al mese con le donne di casa e le “zie”, le amiche più strette cioè, a fare il pane Carasau, 20 chili a volta, di pomeriggio a giocare a scopa con i suoi nipoti (11 in tutto) e pronipoti (22): «Mi arrabbio ancora se perdo. Voglio vincere, anche se ho 103 anni chi l’ha detto che debba perdere?» scherza.

Per Albina gli appuntamenti erano quasi gli stessi: «Tutte le sere scendevo nel “cucureddu”, il centro storico del paese, dove, oltre a chiacchierare, ci scambiavamo il pane, i dolci, l’olio, le verdure» dice con una fierezza invidiabile. «E d’estate, quando ero più giovane, facevo il “casotto”. Andavo al mare con mio marito e i mie figli e ci costruivamo sulla spiaggia una specie di tenda fatta di legni e lenzuola. Stavamo lì un mese, tutti insieme, con altre famiglie. Faticoso, ma bellissimo » spiega. Insomma, era una specie di camping ante litteram. E la spiaggia tutt’oggi resta un luogo d’incontro, un luogo di assemblee. «Io vado a fare il bagno molto presto. Alle sei e mezza sono già giù» dice l’antropologo. «E ogni mattina, verso le sette, arrivano loro, le donne. Tante, sorridenti, si alzano le lunghe gonne a pieghe e camminano in gruppo nell’acqua. E chiacchierano, chiacchierano e chiacchierano. Finito di camminare in mare, tornano sulla sabbia e si siedono in circolo e continuano a parlare. Una piccola ma bellissima comunità tutta al femminile».

Per fare un centenario ci vuole una comunità

Alla base del legame che in modo invisibile ma assai resistente unisce gli abitanti di queste piccole comunità ci sono tanti valori, prima di tutto il rispetto. «Rispetto che vuol dire tante cose, sa: sentirsi importanti, ognuno nel proprio ruolo, accuditi, essere fieri di appartenere a un gruppo, sentirsi protetti, sapere di poter contare sempre su qualcuno» mi spiegano entrambe le “ragazze” di 100 anni. Ma a rendere salda quest’unione c’è anche la fede. «La fede, qualunque essa sia, da un lato è una spinta a tenere duro, a resistere, anche nei momenti più difficili. Dall’altro è un ottimo collante sociale perché sprona a cercare l’aiuto di Dio ma anche dell’altro. A porgere sempre una mano. Ad aiutare. A non lasciare mai nessuno solo» racconta lo studioso.


La forza di questa comunità sta nei gesti di sempre, semplici, e nella fede, che sprona a resistere ma anche ad aiutare e rispettare gli altri


 

Lo sanno bene sia Marianna sia Albina che da sempre si sono ritrovate in chiesa al mattino per il rosario e, al tramonto, a casa con le “zie” per i vespri. E che, mentre parliamo, stringono in una mano il libro delle preghiere e nell’altra quello delle ricette. «La loro quotidianità e anche la loro forza, sta nei gesti di sempre, semplici: curare l’orto, vedere come stanno gli animali, passeggiare tra gli asfodeli, quei fiori bianchi che davano l’impressione di essere in un campo innevato, ma fuori stagione. E ancora, preparare il vestitino per il nipote o i dolci per la festa» aggiunge.

E il passato? «C’è, è fondamentale, ma la vera sorpresa è il loro senso del futuro» conclude l’esperto. Un futuro ancora lungo, in cui credono resti tanto da fare. Per i figli, gli amici, gli altri. Se Dio vuole, ovviamente. «Cosa penso di fare nei prossimi anni? Imparare a preparare gli amaretti e a camminare meglio, per stare ai fornelli e cucinare culurgiones per tutti» dice Albina, salutandomi. Non prima però di aver alzato un bicchiere di vino rosso, con accanto i suoi figli e i suoi nipoti: «A chent’annos!». A cent’anni, come si dice qui in Sardegna. Un augurio semplice, che si fa indistintamente a bambini, adulti e anziani. E che per Albina e Marianna sembra aver funzionato. Perché per fare un centenario ci vuole una comunità.

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