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Fast fashion, come il rifiuto della plastica può portarlo al declino

Secondo la banca multinazionale svizzera UBS la tendenza plastic-free e la sostenibilità porteranno il fast fashion a un brusco calo dei profitti nel prossimo decennio

L’attuale rivoluzione green-friendly porterà i marchi di fast fashion ad andare incontro al declino se non si metteranno in atto dei significativi cambiamenti.

A sostenerlo è un rapporto della banca multinazionale svizzera UBS, che sta registrando il cambiamento di comportamento da parte dei consumatori. Più gli acquirenti metabolizzano e realizzano il reale costo (ambientale e umano) della produzione dell’abbigliamento, meno opteranno per il fast fashion, ritenuto uno dei rami più controversi e problematici del settore moda.

Il rapporto UBS

Stando al rapporto UBS, dunque, i brand fast fashion potrebbero, entro i prossimi 5-10 anni, subire un calo delle entrate che va dal 10% al 30%. Un trend che può solo peggiorare, non correndo ai ripari.

Testualmente, il rapporto stilato dal team dell’analista Victoria Kalb, recita: «L’effetto combinato dei consumatori che acquistano meno articoli e che, contestualmente, acquistano i loro articoli preferiti spostandosi verso linee del tutto sostenibili, genererà un contraccolpo non indifferente».

E, a quanto pare, non basterà neanche lo “sforzo”, dai parte dei brand specializzati nella produzione di abiti di bassa qualità a prezzi super ridotti di sperimentare e rilasciare collezioni eco-orientate.

Infatti, se alla base del fast fashion resta il concetto di usa e getta, legato al lancio non ragionato di collezioni sempre nuove e sostituibili, i profitti si abbatteranno drasticamente.

Questo perché, «lo sforzo per rendere maggiormente sostenibili i prodotti è nullo se confrontato con l’enorme quantità di articoli prodotti che i consumatori finiscono per scartare dopo un numero relativamente breve di utilizzi».

La possibile via d’uscita

Per evitare quella che sembra una sconfitta annunciata, il fast fashion deve adeguarsi alle nuove richieste e al sentiment dei consumatori. Per mezzo di analisi corrette, dovrebbe misurare il loro desiderio reale e canalizzare ogni sforzo verso una gestione più consapevole.

Nel suo rapporto, UBS suggerisce che la via più verosimilmente percorribile è quella del rallentamento della produzione. Un concetto che sembra essere del tutto opposto a quella che è la vocazione del fast fashion, ma che, di fatto, risolverebbe il problema.

«È necessaria una riprogettazione del sistema: meno articoli venduti, articoli che durano più a lungo, meno articoli da buttare. Ciò porterà a un raggiungimento della circolarità e a un equilibrio più remunerativo».

Il ruolo del marketing

Come abbiamo già accennato, più che sostituire gli indumenti convenzionali con alternative più sostenibili, i brand di fast fashion dovrebbero dare ascolto ai desideri più comuni dei consumatori e rallentare la produzione.

Tuttavia, non sempre è semplice registrare i moti interni che muovono un consumatore, soprattutto in quello che è un settore intrisecamente volatile come la moda.

A supporto di questo difficile esercizio d’ascolto, arrivano le campagne di marketing. Stando al rapporto di UBS, le campagne sui cambiamenti climatici e l’ambiente conducono i consumatori a drastiche modifiche delle loro abitudini.

Dimostrare il proprio impegno in settori come la gestione dei rifiuti, l’inquinamento chimico e la gestione dell’acqua è essenziale per riuscire a trasmettere un senso più alto di fiducia e, conseguentemente, convincere all’acquisto.

La rivoluzione di un modello obsoleto

Il rapporto di UBS è arrivato dopo un’analisi molto simile condotta da una della maggiori agenzie di rating al mondo, Moody’s. Questa analisi ha dimostrato che fast fashion e discount saranno i settori che, nei prossimi anni, dovranno affrontare una concorrenza sempre più feroce.

Questo sempre perché le questioni ambientali e sociali hanno un peso maggiore nelle decisioni di acquisto. Moody’s ha anche sottolineato che le aziende di abbigliamento considerate dannose per l’ambiente affrontano un “rischio reputazionale”, dunque un danno di immagine non indifferente.

Sia Moody’s che UBS concordano nel dire che ogni azienda ha tutte le armi per rispondere a questi cambiamenti. Adesso, dunque, è solo questione di capire quando e come metterli in atto.

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