Mamma figlio mazzo di fiori in casa

Mio figlio e l’autismo

Li vedi protagonisti delle serie tv e dei film mainstream. Ragazzi che diventano medici di successo o che girano il mondo. Ma la realtà è molto più complessa di così, soprattutto quando la diagnosi è di un grave disturbo dello spettro autistico. Lo racconta bene Vanessa, mamma di Leone. Le piccole conquiste giorno dopo giorno, la latitanza di una vera assistenza. E la decisione con il marito di impegnarsi in un progetto. Per dare la speranza di una vita migliore a chi, come il suo bambino, non potrà mai essere davvero autonomo

Diagnosi: disturbo dello spettro autistico

Ricevere la diagnosi di autismo è come finire in un labirinto: la via di uscita non c’è. Tu genitore devi imparare a muoverti su un terreno franoso, un sentiero di eterni up & down, piccoli progressi e ricadute. «L’unica cosa che sai è che devi andare avanti, cercare un modo per migliorare. Ma se ti giri e ti guardi attorno, spesso ti rendi conto che sei solo».

Vanessa Bozzacchi, mamma di Leone, 9 anni, ha imboccato quel sentiero più di 7 anni fa, quando un giorno, osservando suo figlio, il dubbio ha iniziato a scavarle dentro e l’ha spinta a indagare fino alla diagnosi: disturbo dello spettro autistico. A Donna Moderna racconta di quell’amore che non concede pause, dei dieci libri che ha sul comodino e che studia ogni sera, delle lacrime, dei tentativi e delle terapie fallite. Ma anche di ciò che le ha fatto scoprire Leone, la gioia provata per le piccole conquiste, i suoi sorrisi e la sua curiosità per il mondo, la sua battaglia per offrirgli una vita che sia vita e non solo tempo vuoto da riempire.

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Quelle parole che non arrivano mai

L’autismo non è una condizione semplice da spiegare. È un disturbo del neuro sviluppo che può avere decine di cause, manifestazioni e gradi di severità, con precisi tratti in comune: la difficoltà a relazionarsi con gli altri e a comunicare, la tendenza ad avere comportamenti ripetitivi. È stato notandoli in suo figlio che Vanessa ha capito. «Leone aveva 15 mesi, è l’età in cui i bimbi già camminano e dicono le prime parole. Ma lui non diceva nulla. Siamo andati dal pediatra, poi da un neuropsichiatria, e con la prediagnosi è iniziato un turbinio di visite ed esami specialistici, attese e terribili conferme. I disturbi dello spettro autistico sono così: devi arrivarci escludendo tutta una serie di altri problemi, da quelli legati al metabolismo alla sordità. Poi si passa all’osservazione delle competenze socio-comunicative, relazionali e di gioco, infine all’encefalogramma, che ti consegna la diagnosi definitiva».

Otto mesi così, nel braccio di Leone hanno infilato un tale numero di aghi che ancora viene preso da terrore ogni volta che entra in uno studio medico. Poi la doccia gelata, anche se le avvisaglie c’erano tutte. «Nel frattempo io ho avuto un infarto» ricorda Vanessa. «Non devo aver retto al colpo, a quattro mesi dalla prima visita il mio cuore si è fermato. “Takotsubo reverse”, hanno detto i medici, quello che una volta si chiamava crepacuore: il mio funzionava al 35%. Mi hanno presa per i capelli, ma per fortuna questa cardiopatia si può curare e ora sto benone».

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Il terrore di sbagliare tutto

Difficile se non impossibile da curare sembra invece il senso di impotenza e di smarrimento che ti assale man mano che, di esame in esame, si avvicina la sentenza. «Non è facile interfacciarsi con il mondo medico se sei genitore di un bambino autistico. Sei confuso, vorresti saperne di più, fai domande e insisti per capire se qualcosa nel tempo potrà cambiare, ma a volte trovi solo indifferenza e fastidio. Non scorderò mai il commento del medico quando ho telefonato allo studio per l’esame audiometrico. Ero in linea, la voce mi ha trapassato come una spada: “eccone un’altra che vuole sentirsi dire che il figlio non è autistico”. Ti assegnano qualche ora di terapia e ti mandano a casa. Ti ritrovi solo con tuo figlio fragile e il terrore di sbagliare tutto».

Autismo: cosa può fare la famiglia

In realtà un percorso codificato che le famiglie dovrebbero seguire esiste ed è tracciato nelle linee guida nazionali sull’autismo dell’Istituto superiore di sanità. Lo conferma Marco Valenti, psichiatra e direttore del Centro di riferimento regionale autismo a L’Aquila, e membro del panel che ha da poco finito di aggiornarle. «L’autismo è una specificità individuale della persona, che ci si porta dietro tutta la vita. Non c’è una cura, la guarigione non è contemplata, ma si può intervenire con le tecniche di tipo comportamentale. Aiutano i bambini ad aumentare la capacità di interazione sociale e conseguire autonomie, minimizzano le criticità e riducono i cosiddetti comportamenti “problema” come crisi o esplosioni di rabbia» spiega.

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Tanto è cambiato, rispetto a 20 anni fa, prosegue lo psichiatra, e oggi un bimbo con autismo ha buoni margini per raggiungere una discreta qualità di vita. Il risultato è legato però alla diagnosi precoce e serve un percorso terapeutico integrato che coinvolga una rete di specialisti e una regia, e che includa insegnanti e famiglie. Le linee guida prevedono che tutto questo venga offerto a livello territoriale, ma una cosa è la programmazione, un’altra è la realtà. I centri regionali di riferimento come quello dell’Aquila, che lavorano in tandem con le Asl, non sono ancora ovunque, e le stesse Asl non sempre sono in grado di dare i servizi necessari.

«Negli anni scorsi sono stati stanziati circa 77 milioni di euro per le cure sull’autismo, ma ancora devono essere spesi. In alcuni casi le Asl non partecipano nemmeno ai bandi, perché si tratta di stanziamenti provvisori che non consentono una programmazione sul lungo periodo» denuncia Benedetta De Martis, presidente di Angsa, l’associazione nazionale dei genitori di persone con autismo. «Dopo anni di battaglie siamo ancora qui che aspettiamo servizi in grado di dare risposte. Le liste di attesa per accedere alle terapie comportamentali ad hoc sono lunghissime, il più delle volte viene offerta qualche ora settimanale di psi.comotricità e logopedia, e allora devi metterti alla ricerca delle poche strutture private in grado di erogare il servizio. E poi c’è il resto: tocca a noi genitori trovare un linguaggio per comunicare con i nostri figli e insegnare loro le regole sociali per adattarsi al mondo».

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La forza di cercare una normalità

Da qui dipende la qualità della vita dei bambini, e degli adulti che saranno domani. Ecco perché, in mancanza di risposte reali, in tanti passano i giorni sul web in cerca di una chance. «Abbiamo provato terapie sperimentali, tra.dizionali e parallele. A volte abbiamo trovato beneficio, altre no» dice Vanessa. «Leone è iperattivo e ha un distur.bo della comprensione e della comunicazione, non parla, non sappiamo quali siano le sue emozioni. Oggi segue 6-8 ore di terapia a settimana, io, i nonni o mio marito siamo sempre con lui, e io continuo a studiare, non mi fermo».

E se per il presente ci sono ancora aspetti da colmare, il futuro è un enorme punto interrogativo. «L’autismo non è Rain man» sottolinea Vanessa. «Ci sono sì persone che con i giusti percorsi potranno raggiungere un certo grado di autonomia, ma ci sono i bimbi come Leone, che non an.drà nemmeno alle scuole superiori. A loro chi pensa? Per questo con mio marito Manuele, che ama Leone come un figlio, stiamo creando una struttura per persone con auti.smo che guarda al domani. Non cerchiamo miracoli, ma a lui e ai ragazzi come lui vorremmo almeno fosse garanti.ta una buona qualità della vita, che poi è la serenità. Ho scelto la strada difficile, lo porto con me, anche in viaggio e al ristorante, anche se so che urla come un corvo e che tutti ci guarderanno. Ma è un bambino curioso, l’autismo gli ha già tolto molto. Non voglio privarlo delle cose belle che ci sono là fuori».

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