Adagio film attori
Valerio Mastandrea, Adriano Giannini, Toni Servillo e Pierfrancesco Favino.

I magnifici quattro del cinema italiano, come non li hai mai visti

Toni Servillo, Pierfrancesco Favino, Adriano Giannini e Valerio Mastandrea come non li hai mai visti. «Sul set ci guardavamo e dicevamo: ma quanto siamo brutti!». E in effetti nei personaggi spietati del noir Adagio sono quasi irriconoscibili. Ma il loro fascino non si discute!

La trama del film Adagio

Ecco la trama del film Adagio. Il giovane Manuel (Gianmarco Franchini) filma un politico a un festino di pedofili e finisce così nel mirino di un carabiniere corrotto (Giannini). Per salvarsi chiede aiuto a due delinquenti (Mastandrea e Favino) legati al padre, vecchia gloria della malavita romana (Servillo).

Toni Servillo: l’intellettuale

«Con la bella faccia stropicciata sembra la versione più sobria e meno glamour di Marcello Mastroianni» ha scritto di Toni Servillo il New York Times, mettendolo al 7° posto tra i 25 migliori attori al mondo. «Ne sono lusingato, in realtà penso che ci accomuni il lungo rapporto con un regista. Per lui Federico Fellini, per me Paolo Sorrentino» ha commentato il 64enne attore napoletano. Per Sorrentino ha dato volto al navigato e mondano giornalista Jep Gambardella in La grande bellezza, Oscar per il miglior film in lingua straniera nel 2014, ma anche a uomini di potere più che di fascino: Giulio Andreotti in Il divo, Silvio Berlusconi in Loro. Invece nel film Adagio è Daytona, un criminale sull’orlo della demenza senile che si trascina in casa e in giro con la barba lunga e l’aria sfatta. «Ahimè non ho avuto bisogno di molto trucco!» sorride Servillo, che per la prima volta sfoggia sul grande schermo una parlata romanesca.

«Stefano Sollima mi ha offerto un personaggio nuovo per me e mi ha dato la possibilità di giocarci, in un quartetto affascinante di attori. Interpretiamo gente che obbedisce fino all’ultimo alle regole della malavita, con il rischio di andare a sbattere: non trova redenzione perché non vuole darla vinta a nessuno. Questo film è però un affresco umano, come suggerisce il titolo Adagio: il movimento di una sinfonia che unisce vari temi, la paternità innanzitutto. Racconta vecchie leggende finite nella polvere che, anche alla fine dei loro giorni, ancora sentono la chiamata alle armi». La chiamata per Toni è arrivata invece dal teatro, passione di famiglia: fin dall’infanzia i genitori portavano lui e il fratello Peppe, musicista e interprete, a vedere gli spettacoli di Eduardo De Filippo (e non a caso si chiama Eduardo il primogenito che l’attore ha avuto dalla moglie Manuela Lamanna). «Mi sono sempre interessato agli altri, è per questo che recito. La nostra è un’arte collettiva, si fa insieme. Più di 30 anni fa ho fondato la compagnia Teatri Uniti con il regista Mario Martone e altri. La mia famiglia è una tribù fatta di tante persone».

Pierfrancesco Favino: l’imprevedibile

Fascino camaleontico. Pierfrancesco Favino meriterebbe un Oscar per la facilità con cui cambia voce e volto (e si imbruttisce, anche). È passato da Tommaso Buscetta in Il traditore di Marco Bellocchio a Bettino Craxi in Hammamet di Gianni Amelio, da Gino Bartali – L’intramontabile di Alberto Negrin al militare Salvatore Todaro nel recentissimo Comandante di Edoardo De Angelis. Picchio – «soprannome che mi ha dato mio padre e mi piace molto» – può essere strafigo, come quando ha presentato il Festival di Sanremo nel 2018, o terrificante, come l’ex bandito della Magliana detto Cammello in Adagio di Stefano Sollima, al cinema dal 14 dicembre, che chiude la trilogia della Roma criminale dopo ACAB e Suburra. Calvo, magrissimo, quasi irriconoscibile. «Mi piace l’idea di raccontare personaggi dimenticati e senza dio, che riemergono e forse cercano redenzione. Ho perso parecchi chili e lavorato su postura e voce, tra riferimenti pittorici e fumettistici e immagini scattate per strada: Cammello è un soggetto che puoi incontrare, a Roma. Malato di tumore, si muove come uno di quei cani randagi che cercano un angolo di calore prima di morire» racconta il 54enne attore romano.

Che aveva qualità mimetiche fin da ragazzino. «I miei cambiavano luogo di vacanza ogni anno e io mi fingevo uno del posto per fare amicizia. Una volta ero toscano, un’altra calabrese. Il mestiere di attore viene anche da questo, dalla capacità di capire i comportamenti». Oggi recita pure in perfetto inglese, come ha dimostrato in Angeli e demoni e Rush di Ron Howard. «Sul grande schermo interpreto spesso storie drammatiche, ma a me veniva bene imitare e far ridere (vedi Tutti per 1 – 1 per tutti di Giovanni Veronesi). Anche in famiglia sono un cazzaro, mi diverto con le mie figlie (di 16 e 10 anni, avute dall’attrice Anna Ferzetti, ndr). Su molte cose, però, sono un padre rigoroso». A chi paragona lui e la sua generazione di attori, per bravura e fascino, a Vittorio Gassman o Marcello Mastroianni, risponde: «Era un’epoca tutta diversa. Forse avevamo più capacità di proteggere il nostro cinema e le nostre storie, evitando appropriazioni culturali. Allora un film come Ferrari l’avrebbe interpretato Gassman».

Adriano Giannini: il timido

«Avevo già interpretato ruoli da cattivo, ma sempre con gli occhi buoni». È magnetico Adriano Giannini, perfino con le lenti scure sugli inconfondibili occhi azzurri. Nel film Adagio veste i panni di un carabiniere corrotto e padre single, tanto tenero con i suoi bambini quanto spietato con il ragazzo che vuole braccare e uccidere per recuperare foto compromettenti. «Il regista mi ha fatto incontrare una specie di montagna umana, cui si era ispirato per il personaggio: ho pensato che avesse sbagliato attore… Per mostrare il suo lato feroce, l’ho immaginato come un lupo ferito e rabbioso in giro per la foresta e ho pensato di cambiare il colore degli occhi. Bisogna fare un passo indietro per essere al servizio di un personaggio».

Un passo indietro Adriano lo aveva fatto anche rispetto alla figura ingombrante del padre Giancarlo, al quale somiglia moltissimo. A 18 anni ha iniziato facendo l’aiuto operatore in una fiction tv, poi l’aiuto regista (fra gli altri, di Giuseppe Tornatore). Solo a 30 anni ha debuttato davanti alla macchina da presa. A sorpresa, nel 2002, ha girato con Madonna Travolti dal destino di Guy Ritchie, remake dell’iconico film di Lina Wertmüller con Giannini padre e Mariangela Melato Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto. Ha recitato per i più importanti registi italiani – tra i titoli recenti, Lacci di Daniele Luchetti e Tre piani di Nanni Moretti – e doppiato grandi attori, da Christian Bale a Brad Pitt, a Jude Law. A 52 anni è uno dei migliori, ma sempre con il profilo basso. Pure alla stabilità affettiva è arrivato di recente ed evitando i riflettori: nel 2019 ha sposato Gaia Trussardi, dicendo di sentirsi per la prima volta a casa, e dopo 5 anni vissuti a Milano sta per tornare nella Capitale. «Vivremo tra Roma e la Toscana» dice. In Adagio la Capitale è una città cupa, come vuole il noir, tra blackout e incendi all’orizzonte. «Il degrado appartiene a tutte le metropoli del mondo e fa da scenario apocalittico a questa vicenda» osserva lui. «Io invece da Roma mi sento sempre abbracciato: amo il verde, i parchi e i tramonti, sono accarezzato dalla poesia».

Valerio Mastandrea: il simpatico

Difficile che racconti qualcosa senza metterci la sua visione buffa della realtà, scherzosa ma pure velata di pessimismo. «In Adagio mi hanno massacrato! Sono stato sul set 12 ore al giorno con le lenti opache per interpretare un non vedente. E mi hanno sequestrato, non potevo vedere neppure la mia famiglia…» dice Valerio Mastandrea. L’autoironia è il suo fascino, la sua cifra. Si percepisce quando interpreta l’ispettore Ginko nella saga Diabolik dei Manetti Bros. (ora è al cinema Diabolik – Chi sei?) o quando dà voce all’Armadillo, la coscienza dalla battuta appuntita di Zerocalcare nelle serie Strappare lungo i bordi e Questo mondo non mi renderà cattivo (su Netflix). E ancora. Solo lui poteva intitolare Nonostante il suo secondo film da regista – dopo Ride del 2018 – «perché l’ho girato nonostante il primo».

Nel film Adagio è un personaggio soprannominato Polniuman ma di hollywoodiano non ha nulla, è anzi un malavitoso malconcio e, appunto, cieco. «Non sono un profondo conoscitore di Shakespeare, ma questo film lo ricorda per come racconta la relazione tra padri e figli… O forse sono io che vedo padri e figli in ogni storia» dice, sempre semiserio. Il 51enne attore romano ha 2 bambini: il 13enne Giordano, avuto dalla prima compagna, ed Ercole, nato 2 anni fa dall’attuale partner, l’attrice Chiara Martegiani. «Pensavo che maturando avrei avuto meno paure e invece è il contrario» ha detto. «Più vai avanti e più crescono le preoccupazioni, forse proprio perché hai famiglia. O perché sai che oggi ci sei e domani chissà. Difatti, nel dubbio, è meglio salutare sempre tutti quelli che incontri». È serissimo invece quando parla di C’è ancora domani, il grande successo dell’anno, dov’è il marito di Delia-Paola Cortellesi, uno di quelli che nel Dopoguerra erano pronti a menare le mogli: «Le donne oggi hanno più consapevolezza e il coraggio di ribellarsi, invece tra gli uomini di ieri e quelli di oggi non trovo molta differenza. Ci vorranno anni per cambiare, serve un lavoro culturale».

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