Come il coronavirus ha cambiato il nostro modo di parlare

Parole come “pandemia”, “quarantena” e “contagio” sono ormai entrate nel nostro linguaggio comune, mentre altre ne sono state create. Un esempio? Covidioti!

Tra le tante cose che il coronavirus ha sconvolto nelle nostre vite, c’è anche il linguaggio. Negli ultimi mesi, infatti, parole che erano usate soprattutto da chi lavorava in determinati ambiti sono state entrate definitivamente nel linguaggio comune, come certificano gli esperti dell’enciclopedia Treccani. In collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità, la redazione di Treccani ha infatti selezionato alcune delle parole cruciali per comprendere l’emergenza sanitaria Covid-19: da batterio a paziente zero (e cioè «Il primo paziente individuato, studiato e sottoposto a terapie all’interno del campione della popolazione di un’indagine epidemiologica»), da pandemia a infodemia (ovvero «la circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili»), da contagio a quarantena.

Corona Party, Coronababies e… Covidioti!

Come ha spiegato alla Bbc Fiona McPherson, senior editor dell’Oxford English Dictionary (OED), a dicembre la parola “coronavirus” è apparsa solo 0,03 volte per milione di token (i token sono le più piccole unità in cui si può scomporre il linguaggio secondo i linguisti dell’OED). Il termine “Covid-19” è stato coniato solo a febbraio quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha annunciato il nome ufficiale del virus e ad aprile le ricerche relative a “Covid-19” e “coronavirus” sono salite vertiginosamente a circa 1.750 per milione di token, suggerendo che i due termini vengono ora utilizzati all’incirca con la stessa frequenza.

Oltre a Covid-19, ci sono altre parole che in questo periodo sono diventate di uso molto comune, soprattutto su internet: molte fanno riferimento al distanziamento sociale cui ci ha costretto la pandemia in corso e alla limitazione del contatto umano che ne è derivata. Basta pensare agli “apertivi virtuali”, ai “Covid party” (che in realtà hanno anche un’accezione negativa, e indicano quelle feste organizzate apposta per contrarre il virus) oppure all’espressione “Quarantine and chill”, che fa il verso al famoso slogan di Netflix che invita a rilassarsi guardando una serie tv, oppure ancora all’“elbow bump”, che sarebbe il saluto col gomito con cui sostituire strette di mano, baci e abbracci, ormai vietatissimi. Pare che in Polonia “coronavirus” sia addirittura usato come verbo, mentre nel Regno Unito i bambini nati o concepiti in questo periodo si chiamano “Coronababies”. Il nostro preferito, però, è “Covidioti”, che si riferisce a quelli che non rispettano le regole di igiene e distanziamento sociale (un po’ come il meme della terribile Karen!).

In tempi di crisi nascono sempre nuove parole (e spesso fanno ridere)

Non deve sorprendere che molte delle parole nate in questo periodo o delle parole che dalla situazione attuale hanno preso nuovi significati siano ironiche o comunque utilizzate per battute e immagini satiriche. Spiega infatti Robert Lawson, sociolinguista presso la Birmingham City University, che «esiste una creatività linguistica che non è ancora entrata nel dizionario ufficiale, ma che riflette il ruolo del linguaggio come meccanismo di difesa ed elaborazione del trauma. Questi usi innovativi ci consentono di nominare qualunque cosa stia succedendo nel mondo in tempo reale. E una volta che puoi nominare le pratiche, gli eventi, le condizioni sociali attorno a un particolare evento, le persone hanno un vocabolario condiviso che possono usare come una scorciatoia». Una scorciatoia che ci permette di alleggerire una situazione difficile e trovare conforto in una risata.

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