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Le quote rosa in azienda servono davvero?

C’è chi le considera un favoritismo che non tiene conto delle competenze. E chi uno strumento d’emergenza ma necessario. Abbiamo indagato. E abbiamo scoperto cosa serve per promuovere parità di genere e meritocrazia. Insieme

Imporre un certo numero di donne ai vertici aziendali, così come al momento delle assunzioni e delle promozioni – le quote rosa, insomma – fa bene alle donne e alle imprese? O un automatismo matematico per correggere la sproporzione, di presenza e di peso, tra maschi e femmine nel mondo del lavoro rischia di minare la meritocrazia? Certo è che la valorizzazione del talento femminile è un percorso in salita: una recente analisi della società di consulenza McKinsey dice che i posti ricoperti dalle donne sono 1,8 volte più vulnerabili alla crisi Covid rispetto a quelli dei loro colleghi. La questione è aperta e offre un ventaglio di risposte.

Troppe potenziali candidate si autoescludono, bisogna far emergere le loro competenze

Le quote rosa, quelle previste dalla legge Golfo-Mosca (vedi sotto) e quelle adottate con codici interni aziendali, «oggi sono ancora indispensabili» dice convinta Darya Majidi, fondatrice e ceo della società di consulenza strategica Daxo Group e autrice di Sorellanza digitale – Femminismo 4.0 (acquistabile su Amazon). «Non vedo un dualismo tra merito e quote e non bisogna commettere 2 errori. Il primo è confondere le competenze e il merito con l’arroganza e l’ostentata sicurezza tipiche del maschio alfa. Se vogliamo riconoscere il merito a chi possiede le skills che per la Commissione europea e il World economic forum sono cruciali, cioè l’intelligenza emotiva, la capacità di collaborare e il problem solving, allora il merito deve andare alle donne. L’altro errore che si fa spesso è riempire le quote solo con le figlie, le sorelle, le mamme dei proprietari delle aziende, anche se non hanno le competenze giuste. Le quote rosa servono a far emergere le donne di talento. Ce ne sono tante, ma devono poter mostrare sul campo quello che sanno fare. Se non diamo loro spazi appositi, non scopriremo quelle meritevoli perché – l’ho visto in tanti anni come docente, selezionatrice e mentore – le donne purtroppo spesso si autoescludono».

Le imposizioni di percentuali al femminile è «una strada obbligata ma stretta» secondo Isabella Covili Faggioli, presidente nazionale di Aidp (Associazione italiana dei direttori del personale). «Quando un direttore del personale dice “Nell’elenco delle candidature per la promozione vanno messe anche 2 donne”, risponde a un obbligo più che a una valutazione sul merito». Il rischio, insomma, è che si pensi che alcune raggiungano certe posizioni per quote, non per capacità. «D’altra parte» continua Covili Faggioli «bisogna fare qualcosa perché non saranno certo gli uomini a lasciare liberi i loro posti. Con il Covid il tema è diventato ancora più delicato: sono rientrati in presenza più manager uomini che donne, visto che molte di loro sono rimaste in smart working per seguire la famiglia. Ma le relazioni costruttive e i giochi di potere si fanno guardandosi in faccia, non davanti a uno schermo. Non va dimenticato che sono le diversità a imprimere dinamismo all’azienda».

La diversità è fonte di ispirazione e azione anche per Silvia Bolzoni, presidente e ceo della società che si occupa di payroll e amministrazione del personale Zeta Service, inserita tra le 100 leader italiane femminili dalla rivista Forbes nel 2019. Nella sua azienda, stando alla contabilità di genere, occorrerebbe invocare le quote azzurre: «Da noi l’80% dei collaboratori sono donne, ma non trovo sensate logiche matematiche, scegliamo chi vale per quel posto senza discriminazioni. Ci occupiamo di buste paga: nel fornire il nostro servizio è fondamentale saper ascoltare il cliente, capire il suo stato d’animo. Per noi è una dote importantissima, che ricerchiamo in ogni nuovo assunto, e devo dire che in questi mesi stiamo inserendo anche tanti ragazzi con tale caratteristica. Per valorizzare l’ascolto abbiamo una divisione interna, che si chiama “Felicità e valori”, dove si portano proposte e idee ascoltando i colleghi. E con lo sguardo rivolto alla tematica femminile abbiamo dato vita alla Fondazione Libellula, che ha in sé un network di oltre 30 aziende che lavorano su più di 50.000 persone per promuovere una cultura contro la violenza sulle donne e la discriminazione di genere».

Occorrono sia provvedimenti immediati sia un cambiamento culturale di lungo periodo

Della Fondazione Libellula fa parte l’agenzia per il lavoro Randstad Group Italia. La sua chief HR officer Valentina Sangiorgi ritiene si debba agire su 2 assi temporali: «Di fronte a un’emergenza come quella delle donne nel mercato del lavoro, le quote rosa possono essere come l’uso delle mascherine. Un provvedimento forte, ma temporaneo. Ci si deve però impegnare anche sul lungo periodo, scalzando tanti pregiudizi e promuovendo corretti stili di leadership. Il dato demografico dice che in Italia ci troveremo presto ad avere più posti di lavoro che persone in età da lavoro. Per aiutare il sistema Paese dobbiamo studiare strategie che permettano a tutti di esprimersi nel miglior modo possibile. Le donne in questo sono già oggi, e domani lo saranno ancora di più, una risorsa molto importante. Dentro Randstad abbiamo deciso di non avere quote rosa, ma il 43% delle posizioni di senior management sono al femminile. In un paio di occasioni abbiamo assunto donne incinte. Lo abbiamo fatto perché erano le persone con le competenze giuste. È cruciale la cultura delle singole comunità e le aziende sono comunità: se riusciamo ad avere buone pratiche all’interno della nostra organizzazione, siamo poi più credibili nel provare a influenzare chi sta all’esterno».

Il Dna aziendale è il fattore chiave anche per Marta Centurione, chief HR officer di Clementoni e membro del comitato scientifico di HR Link, giornale online dedicato ai professionisti delle risorse umane (www.hr-link.it): «Ho operato in realtà multinazionali in cui, presentando i piani di sviluppo, si misurava la presenza delle donne, ma non ho mai vissuto questo come un “vincolo matematico” né sentito la necessità di inserimenti ad hoc per bilanciare la presenza maschile. La popolazione lavorativa di Clementoni è distribuita in modo paritario praticamente in tutti i dipartimenti aziendali. Questo è il risultato di un percorso costruito con estrema naturalezza: sia in fase di selezione sia in fase di promozione, puntiamo sempre e solo sulle reali competenze, sul talento e sulla passione delle persone».

La tecnologia può favorire l’inclusione

Mentre tante aziende cercano la formula per dare valore a chi è di valore, anche iniziative collettive di privati, associazioni e governi si mettono in moto. Il movimento spontaneo “Il Giusto Mezzo” (www.ilgiustomezzo.it) in pochi giorni ha raccolto oltre 40.000 firme per chiedere che metà dei soldi in arrivo con il Recovery Fund siano usati per le donne e ha ottenuto dal premier Giuseppe Conte l’impegno a promuoverre l’occupazione femminile con agevolazioni per le lavoratrici.

Gli Stati membri dell’Unione per il Mediterraneo (UpM) hanno invece approvato un meccanismo intergovernativo che fornirà dati per elaborare politiche su base scientifica e contribuirà al raggiungimento degli obiettivi legati alla parità genere nella regione euromediterranea. I nuovi indicatori saranno presentati in una conferenza a metà novembre: Accelerare l’uguaglianza di genere nel contesto della pandemia Covid-19.

Proprio dalla pandemia viene però un altro pericolo: «In questo periodo stanno crescendo le disuguaglianze sociali e quindi anche quelle tra le donne. Il rischio è che solo un gruppo ristretto possa permettersi gli studi le condizioni necessarie per fare carriera mentre molte altre, magari con più numeri ma minori risorse finanziarie, resteranno tagliate fuori» avverte Isabella Covili Faggioli.

Ecco perché diventa pressante l’appello di Darya Majidi: come recita il sottotitolo del suo libro, occorrono «un Femminismo 4.0 tecnologico e inclusivo, cioè una tecnologia che porti benessere a tutti, e una nuova alleanza tra donne e uomini. Ci sono 6 C con cui cambiare il mondo: Consapevolezza, Cultura, Community, Competenze, Cuore e Coraggio. Le prime chiamate ad attivare queste 6 C sono le donne che arrivano in alto: devono portare le altre donne ai tavoli che contano».

Più donne ai vertici con la legge Golfo-Mosca (ma non ancora abbastanza)

La legge Golfo-Mosca, introdotta nel 2011, prevede che il genere meno rappresentato (di fatto, le donne) nei consigli d’amministrazione e nei collegi sindacali delle società quotate in borsa e delle società a controllo pubblico ottenga almeno il 30% dei membri eletti. Una recente modifica ha prorogato la norma che sarebbe dovuta “scadere” nel 2020 e portato la percentuale al 40%.

Cosa è successo in questi anni? Lo dice un rapporto realizzato da Cerved-Fondazione Bellisario in collaborazione con l’Inps: le percentuali previste sono state raggiunte, ma ci sono punti critici. Le donne di rado diventano amministratrici delegate e presidenti, i tasselli cruciali restano quindi in buona parte al maschile. Non solo. Le donne nei consigli di amministrazione più degli uomini (il 13,8 contro l’8,8%) hanno incarichi in altre società quotate. Tradotto: in pochissime occupano pochi posti di vertice.

Una ricerca dell’osservatorio Aub dell’università Bocconi mostra poi che non si è verificato lo sperato “effetto imitazione”: nelle società non quotate – che non hanno obblighi di percentuali rosa – la presenza di donne ai vertici rimane molto bassa. Per questo lo stesso studio propone di estendere la legge alle società non quotate di maggiori dimensioni.

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