Nel ristorante rom che sfida i pregiudizi

A Scampia 3 napoletane e 2 abitanti del vicino campo nomadi hanno aperto un locale che unisce specialità partenopee e balcaniche. E a chi parla di censimenti ed espulsioni rispondono: «Qui dimostriamo ogni giorno che l’unica strada per sconfiggere il razzismo passa per la conoscenza e la comprensione reciproca»

Il profumo dei friarielli diventa il cuore della versione serba della moussaka. L’aroma di capperi, uvetta e pinoli si mischia a quello dei vermicelli di Scammaro. «Come secondo vanno bene le sarme?» domanda una cuoca dall’accento slavo, mentre mostra ai clienti gli involtini di verza con riso e spezie che ha appena preparato. Siamo nel cuore di Scampia, il quartiere a nord di Napoli tristemente famoso per i palazzoni delle Vele che sono contemporaneamente piazza di spaccio e set di Gomorra, ma anche per la presenza di uno dei campi rom più grandi del Mezzogiorno, quello di Cupa Perillo: 800 abitanti “ufficiali”, almeno 1.000 nella realtà. Proprio qui, nel topograficamente profetico Viale della Resistenza, c’è il ristorante Chiku, dove ogni giorno 5 donne – 2 rom e 3 napoletane – combattono la loro battaglia.

«Resistiamo a luoghi comuni e attacchi privi di fondamento»

Altrove parleremmo di “nuova proposta culinaria” o “interessanti esperimenti di fusion balcano-partenopea” e basta. Qui invece le pretese sono diverse, ma non per questo meno importanti. A sintetizzarle ci pensa con una battuta Malina Aleksic, 43 anni e 4 figli con cittadinanza italiana, abitante del campo rom e una delle titolari del Chiku: «Davanti a un buon piatto, qualsiasi stereotipo vacilla». Nei giorni in cui il ministro dell’Interno Matteo Salvini promette censimenti ed espulsioni per i nomadi, anche la cucina può diventare l’avamposto della lotta ai pregiudizi. Almeno così la pensa Emma Ferulano, 35 anni, napoletana doc in azione fra tavoli e fornelli: «Quotidianamente proviamo a dimostrare il contrario di quel che dice Salvini» spiega. «L’unico mondo possibile è quello contaminato, multiculturale, fatto di comunità che si costruiscono chiedendo più diritti. Resisteremo anche a questi attacchi idioti e privi di fondamento». Sotto la scritta in gesso Cosa c’è di meglio di una tavola per sedersi generosamente uno di fronte all’altro, il viavai di piatti e ordinazioni è rapido: il ristorante, aperto a pranzo nei giorni feriali e disponibile su prenotazione la sera e nei weekend, piace e da qualche tempo, in piena tradizione napoletana, si è aperto anche a matrimoni, battesimi e feste per il 18esimo compleanno. Accoglienza e prezzi ragionevoli, oltre a un’offerta che mescola pizza e goulash, mozzarella di bufala e biscotti balcanici, sono la chiave per superare le diffidenze iniziali: «La gente diventa sospettosa quando scopre che ai fornelli ci sono delle rom, ma poi appena inizia a mangiare con gusto le distanze si riducono» confida Malina, arrivata a Napoli dopo essere fuggita dai bombardamenti in Serbia.

«Dobbiamo riappropriarci del quartiere»

Nato nel 2014, Chiku ha 2 anime. Da una parte il ristorante, progetto dell’impresa sociale La Kumpania. Dall’altra l’associazione “Chi rom e… chi no”, che si occupa di attività ricreative, eventi culturali e assistenza. «Tutto è iniziato quando facevamo il doposcuola ai bambini del Lotto P» racconta l’avvocato Barbara Pierro, presidente di “Chi rom e… chi no”. «Lavoravamo accanto a quelli che spacciavano o consumavano eroina e ci siamo sempre rivolti sia ai rom sia ai napoletani, indistintamente. Perché l’obiettivo era unico: vivere il quartiere per riappropriarsene e non lasciarlo all’incuria. O peggio, alla camorra». Eppure gli stereotipi sono duri a morire. «La gente ha visto Gomorra in tv e crede di sapere come si vive qui» racconta Rosaria Fele, cuoca 47enne di Chiku. La sua famiglia è una delle molte giunte a Scampia dopo avere perso la casa nel terremoto dell’Irpinia del 1980: 5 anni di container prima dell’assegnazione di un alloggio, le difficoltà di inserimento e quelle di essere donna in un quartiere dove la disoccupazione sfiora il 70% e quella femminile è quasi assoluta. Passato simile anche per l’altra dipendente locale del Chiku, la 43enne Emilia Gemito: «Questo quartiere non è come lo dipingono» attacca. «Ci sono persone perbene. Ma se vivi qui ti tocca specificare sempre che non hai a che fare con il malaffare». Gli stessi pregiudizi, lo stesso nomadismo, fisico e dell’anima. Sarà anche per questo che l’esperimento funziona. «Scampia com’è? Di’ la verità, ti aspettavi di peggio? » mi chiede una ragazzina rom venuta al ristorante per fare i compiti. Da grande vuole diventare una dottoressa. Per il momento è solo una rom abusiva. O forse una delle tante sognatrici abusive di Scampia.

Rom in Italia: 4 domande per capire

Quanti sono i nomadi? Le persone di etnia rom, sinti e caminanti che vivono in Italia sono circa 64.000, pari allo 0,14% della popolazione. Tra loro, 26.000 vivono in condizioni abitative precarie.

Possono essere espulsi? Nella maggior parte dei casi no. Il 55% dei nomadi presenti in Italia (ma la percentuale scende al 14% fra gli abitanti di campi e baraccopoli) ha la cittadinanza italiana e il 36% quella di un altro Paese Ue (nell’ordine Romania, Bulgaria, Croazia) che permette comunque la libera circolazione.

Quanti sono i campi rom? Quelli ufficiali sono 148, ai quali si aggiungono 60 spontanei. Il record spetta a Roma, con 17 insediamenti.

Il censimento chiesto da Matteo Salvini è legale? Dipende. I rom con cittadinanza italiana, come tutti noi, sono già censiti a più livelli. Mentre il monitoraggio di fenomeni come l’abbandono scolastico, l’evasione fiscale, gli abusi edilizi e i reati non può prevedere una base etnica di ricerca, come hanno già specificato la Ue e anche il Consiglio di Stato che bocciò, nel 2008, un’iniziativa simile dell’allora ministro dell’Interno Maroni.

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