Alimentazione: più acido folico per tutti?

Nel Regno Unito diventa obbligatorio inserire l'acido folico nelle farine. Ma in Italia servirebbe? No, tranne in gravidanza e alcuni casi specifici, purché si segua un'alimentazione equilibrata. Ecco dove trovare l'acido folico e perché è importante

Il Regno Unito ha deciso di integrare l’acido folico “per legge” nella farina. Si tratta, infatti, di un nutriente fondamentale per prevenire malformazioni del tubo neurale e in particolare di spina bifida. Non si tratta del primo Paese a renderne obbligatoria la presenza in un alimento comune come la farina, perché negli Usa, in Canada e in Australia è già così. Ma potrebbe accadere anche in Italia o essere utile che tutta la popolazione ne assuma una quantità maggiore? In realtà, secondo gli esperti vanno fatte delle distinzioni, sia per età che per tipo di alimentazione, perché in quella Mediterranea non ce ne sarebbe bisogno.

Il caso inglese: farina “fortificata”

L’obiettivo delle autorità sanitarie britanniche è chiaro: ridurre le probabilità di malformazioni del tubo neurale, per questo la vitamina B9 o acido folico sarà aggiunta alle farine di cereali non integrali in modo obbligatorio. In pratica tutti i prodotti farinacei non integrali dovranno contenerne una maggiore quantità. «La fortificazione garantisce una corretta assunzione di acido folico durante tutta la vita, quindi anche nel periodo pre-concezionale della donna. Si è visto, infatti, che con una integrazione adeguata si possono ridurre alcuni disturbi legati al sistema nervoso centrale del 70%, in particolare nei due mesi prima del concepimento e per tutto il primo trimestre di gravidanza» spiega Luigi Orfeo, neopresidente della Società italiana di Neonatologia.

Aumentandone la quantità nei prodotti in commercio nei negozi e nei supermercati, però, chiunque ne assumerebbe di più, come infatti accade già in oltre 90 Paesi nel mondo.

In Italia non c’è carenza di acido folico

«È ciò che accade, ad esempio, in America, Canada e Australia, mentre in Europa non esiste questa norma, tranne appunto che in Gran Bretagna. Non sarebbe un’operazione semplice, perché presuppone un accordo tra le autorità sanitarie, i produttori alimentari, le istituzioni, le associazioni. Ma come neonatologi noi saremmo d’accordo che si facesse anche in Italia» spiega Orfeo. Diverso, però, il discorso per il resto della popolazione: «In linea di principio non ha senso integrare laddove non ci sono reali bisogni e, nel caso dell’acido folico, in Italia non se ne registrano nella popolazione in generale. Circa il sale iodato, invece, in passato la popolazione italiana aveva una reale carenza endemica, più diffusa in alcune zone, ma comunque in media piuttosto consistente. Per questo è stato integrato nel sale e oggi possiamo dire di aver superato il problema» spiega il professor Luca Piretta, gastroenterologo e nutrizionista presso l’Università Campus Biomedico di Roma.

Acido folico: oltre che in gravidanza, serve a pochi. Ecco i casi

«Gli studi rassicurano sul fatto che un’integrazione di acido folico non avrebbe effetti collaterali. Si tratta di una vitamina del gruppo B – chiarisce Orfeo – In passato si riteneva che un eccesso di acido folico potesse nascondere un’eventuale carenza di vitamina B12, spia a sua volta di una patologia rara, ma oggi si sa che questo rischio è molto remoto». Il punto, però, è un altro: «Trattandosi di una vitamina che si trova soprattutto nelle verdure a foglia larga, ma anche in parte nel pesce e nel pollame, sarebbe sufficiente avere un’alimentazione varia per non incorrere in carenze, a meno di non essere in gravidanza, quando i fabbisogni aumentano. Oppure in caso di persone con omocisteina, cioè un fattore di rischio che si trova nel sangue e il cui aumento indica un maggior rischio di malattie trombotiche o cardiovascolari. Solo in queste persone sarebbe utile aumentarne la quantità per ridurre le probabilità di queste patologie» spiega Piretta.

All’estero si integra (anche troppo) perché si mangia male

Perché allora nel Regno Unito si è introdotto l’obbligo di integrazione in un prodotto così diffuso come le farine? «È possibile che nel Regno Unito ci sia una maggiore necessità per carenze legate a fattori specifici, ma in generale va ricordato che i Paesi anglosassoni hanno una dieta diversa rispetto alla Mediterranea, che è ricca di vegetali e comprende anche pesce e una quota di carni bianche. Va anche ricordato che in generale negli Stati Uniti e nei Paesi anglosassoni c’è un approccio culturale differente: si tende ad arricchire alcuni alimenti, per esempio con vitamina D, zinco, ferro, ecc. e a togliere nutrienti ad altri, quindi si trovano magari il latte senza lattosio o prodotti senza glutine, uova o soia, ma addizionati di altri minerali e vitamine. Sarebbe sufficiente una maggiore educazione alimentare per sapere come non farsi mancare nulla, semplicemente scegliendo gli alimenti adatti e nelle corrette quantità» aggiunge il nutrizionista.

Un problema di quantità

Non va poi dimenticato un aspetto non secondario: «Come si fa a stabilire le corrette quantità di integrazione, adatte a tutta la popolazione? Per qualcuno potrebbero essere sufficienti le integrazioni base nella farina, per altri – come le donne in gravidanza – potrebbero non bastare. E poi, come si fa con chi non mangia farinacei o con i celiaci o con chi mangia solo prodotti integrali, che nel caso inglese sono esclusi dal provvedimento di legge? – si chiede l’esperto gastroenterologo – Insomma, io penso che al momento in Italia una norma analoga non avrebbe senso. Ripeto: con un’alimentazione equilibrata, nessuna integrazione avrebbe senso».

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