Alzheimer a 45 anni

«Posso vedere le parole galleggiare davanti a me e non riesco a raggiungerle, non so più chi sono e cosa perderò ancora». A parlare è Alice Howland in Still Alice, il film di Richard Glatzer e Wash Westmoreland ora nelle sale italiane, tratto dal libro Perdersi di Lisa Genova (Piemme).

Interpretata dall’attrice Julianne Moore, che per questo ruolo è in odore di Oscar, la protagonista è una madre, una moglie e un’insegnante felice. Finché una malattia cambia tutto. Lei non ricorda più il programma delle lezioni, la strada per il bagno di casa, il nome dei figli. La diagnosi è impietosa: Alzheimer presenile. È una storia toccante, che instilla dubbi e paure.

Ma davvero possiamo ammalarci da giovani, prima dei 50 anni? «In genere la malattia viene diagnosticata dopo i 65. Le forme precoci sono rare: riguardano meno del 10% dei casi. Molto spesso c’è una predisposizione genetica e 2 volte su 3 aggrediscono le donne» spiega Claudio Mariani, direttore dell’unità di Neurologia dell’ospedale Sacco di Milano.

Che significa ammalarsi di Alzheimer a 45 anni

Lo racconta al cinema la toccante storia di Alice, una Julianne Moore da Oscar. Il film parla di un problema reale: nel 10% dei casi questa patologia colpisce da giovani. Soprattutto le donne

Alzheimer presenile: cosa succede?

«È come se a poco a poco si spegnessero le lampadine nel cervello. Fuori la persona sembra sana come un pesce invece ogni giorno perde una parte di sé. È ancora più impressionante vedere un giovane con l’Alzheimer, perché tutti associano la malattia alla vecchiaia» nota Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia (alzheimer.it).

«Immaginiamo di svegliarci una mattina qualunque. Infiliamo le calze, le scarpe e… di colpo non ricordiamo più cosa metterci dopo. Il paziente per un po’ si rende conto di ciò che gli sta succedendo. Ma non si sa esattamente quanto può durare questo stato di consapevolezza. Un signore mi ha raccontato che sua moglie ha avuto un quarto d’ora di lucidità in una fase avanzata della malattia e gli ha detto: “Che cosa ti sto facendo passare?”».

Alzheimer, come accorgersi se sta capitando a noi?

«Il primo sintomo è la perdita di memoria. Non parliamo di naturali piccole dimenticanze, come il nome del tale attore o il posto dove abbiamo messo le chiavi dell’auto» dice il  neurologo Mariani. «Ma di cose che compromettono le normali attività quotidiane, come mangiare e non ricordarsi di averlo fatto, non ritrovare la strada di casa o indossare un giaccone in una giornata calda».

Alzheimer precoce, a chi chiedere aiuto?

«Alle Unità di valutazione Alzheimer che si trovano in tutti i grossi ospedali» consiglia Mariani. «Qui, con alcuni esami tra cui la risonanza magnetica, la tac cerebrale e i test neuropsicologici, si possono escludere altre patologie, come tumore o ictus».

Arrivare alla diagnosi è importante anche per il paziente. «Ricordo una giovane donna che all’inizio era sempre nervosa» dice Gabriella Salvini Porro. «Solo dopo il responso del medico, seppur tremendo, si è tranquillizzata: “Ho potuto dire ai miei figli che non ero matta, ma malata” raccontava».

Si riesce a guarire dall'Alzheimer?

Purtroppo non ancora.

«Esistono solo farmaci che nel 30% dei casi bloccano l’avanzamento della malattia per qualche anno e terapie di riabilitazione che aiutano a mantenere il più a lungo possibile le capacità mentali rimaste» risponde Mariani. «Sono utili soprattutto per i pazienti con Alzheimer precoce, perché la patologia degenera rapidamente».

Che possono fare i familiari di un malato di Alzheimer presenile?

«L’Alzheimer va considerato al pari di altre malattie come il cancro. E trattato con lo stesso tatto. Guai a pensare che il malato non capisca che sentimenti proviamo nei suoi confronti» avverte Mariani.

«È importante che i familiari si prendano cura di lui rispettando la sua personalità. Faccio un esempio. Una signora, seguita a domicilio, era agitatissima. Poi l’hanno portata in un ospedale e si è calmata come per miracolo: a casa aveva ottime cure, ma lei era una donna mondana. Stare in mezzo ad altri pazienti l’aveva fatta sentire meglio».

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