Sentirsi soli vittime sindrome di calimero

Fai la vittima? Scopri se hai la sindrome di Calimero

Ti senti sfortunata, ti lamenti in continuazione della tua vita e pensi che il mondo ce l'abbia con te? Forse sei vittima della sindrome di Calimero. Ecco cos'è e come uscirne

Anche se non conosci la sindrome di Calimero, sappi che della schiera degli eterni malcontenti facciamo un po’ tutti parte, sempre pronti, come siamo, a brontolare e lagnarci.

Ma allora come uscire dalla trappola della lamentela facile? Cambiare atteggiamento nei confronti di se stessi e della vita significa trovare un modo per uscire dalla gabbia asfissiante della paura e del giudizio, trasformare il proprio sguardo verso il mondo: osare, tornare (o diventare!) protagonisti della propria esistenza.

Non esiste un tempo limite, perché può accadere a qualsiasi età. Se stai leggendo queste parole significa che una parte di te si è sentita attratta e sta combattendo per mostrarsi allo scoperto… Allora, è davvero il momento di iniziare un viaggio nel cambiamento.

Che cos’è la sindrome di Calimero?

La sindrome di Calimero è caratterizzata da un forte senso di disagio e sfiducia. La tendenza a lamentarsi è rivolta contro se stessi: proprio come il pulcino che tutti ben ricordiamo, ci si sente vessati e incompresi, vittime della sfortuna.

A un livello profondo, il vittimismo è fortemente legato all’auto-svalutazione, a un processo di disistima e visione negativa di sé, le cui radici affondano in ciò che si è vissuto durante l’esistenza, l’educazione ricevuta e le esperienze di vita.

La catena di lamentele che affligge il vittimista spesso si trasforma in un boomerang con cui vampirizza l’energia altrui, ecco perché un autentico processo di trasformazione implica la capacità di analizzare i propri buchi emotivi e mettersi in gioco per imparare un nuovo modo per guardare e vivere la realtà.

Dove nasce il senso di impotenza

«È un’ingiustizia però!» esclamava il celebre pulcino inventato nel 1963 per il Carosello.

Secondo lo psicanalista Saverio Tomasella, autore del libro La sindrome di Calimero (Sperling & Kupfer, 2018), ciò che possiamo cogliere come prima ispirazione per il cambiamento è iniziare a chiederci il senso che diamo al termine “ingiustizia”.

Che cosa vuole esprimere, a livello profondo, il nostro lamentarci? Se Calimero evoca l’idea dell’abbandono, con il fagottino sempre sulle spalle, è altrettanto vero che il suo borbottio incessante diventa recriminazione continua e pedante: incapacità di vedere al di là di sé, del proprio caso specifico.

“L’erba del vicino è sempre più verde”, recita un proverbio popolare, perché la vita degli altri appare semplice, ancora una volta più vincente rispetto alla nostra. Succede perché, vista a distanza, dell’esistenza di chi ci vive accanto non appare che la superficie: il contenuto di difficoltà che appartiene all’altro è sempre eluso, sottovalutato; la parte brillante è l’unica ad emergere.

Guarire le ferite emotive

Il bambino dentro ognuno di noi, spiega Tomasella, non è ancora stato risarcito e consolato a causa delle delusioni vissute: riuscirà mai a esserlo un giorno? Ogni volta che sfioriamo questi luoghi della memoria il tempo si interrompe e ci accorgiamo di quanto possa bruciare, anche a distanza di anni, una ferita che rimane sempre aperta.

Vedere e vivere un’ingiustizia, essere trattati senza il rispetto dei nostri diritti, scuote l’orgoglio e fa percepire, dolorosamente, un limite amaro. Ma in questo caso c’è altro da capire perché quando la rabbia anziché indirizzarsi a una persona è verso la vita stessa, allora qualcosa dentro di noi si sgretola. Radicare il proprio pensiero nella convinzione che in fondo “la vita è ingiusta con me” significa infilarsi nel buio di un vicolo cieco. L’autostima crolla.

Il confine verso ciò che sentiamo di poter o non poter fare appare in tutta la sua carica autodistruttiva: emerge un lacerante senso di impotenza e la libertà di azione si scontra con la violenza del NO. “No, non è possibile, non per te”: un no che cresce da dentro e trova conferma negli eventi esterni.

Fare la vittima: i sintomi

Nel tuo modo di comportarti trovi alcuni di questi atteggiamenti?

– Tendenza a fare paragoni con la vita e i risultati raggiunti dagli altri: la tua vita è sempre peggio, vero?

– Sensazione di non avere il controllo della propria esistenza: quante volte pronunci frasi come “Non posso farci farci niente”?

– La sfortuna si accanisce contro di te, sei sempre sfortunato: ti consideri così e parli con queste parole quando devi spiegare te stesso agli altri. 

– “Sì, però… per me è diverso”: la nostra situazione è sempre un caso specifico, vero? La replica immediata, che utilizza il “ma” oppositivo, attiva immediatamente un blocco e spesso nasconde le resistenze che in profondità nutriamo.

Dare le colpe al passato: rimanere con lo sguardo fisso verso ciò che è stato in realtà è ciò che fa rimanere ancorati a quel punto invece di muoversi verso nuovi orizzonti.

Vedere che gli altri hanno accesso a qualcosa che per noi è vietato genera frustrazione e il perché è chiaro. La frustrazione è una parente stretta della rabbia, così come della tristezza, due dimensioni che esprimono con modalità diverse un disagio profondo, che ha a che fare con la difficoltà al potersi esprimere sapendo di essere compresi.

In realtà sotto si cela un inganno. Non si tratta semplicemente del fatto che gli altri possano godere di ciò che per noi risulta proibito: a essere decisivo è il pensiero che sia impossibile per noi e possibile per gli altri.

La vita distribuisce a ognuno un carico diverso di eventi da affrontare e nel frattempo noi ci auto-imprigioniamo con convinzioni soffocanti che nascono dalle nostre esperienze di vita: giorno dopo giorno, anno dopo anno, i pensieri si trasformano nella barriera di un muro troppo alto.

Vittimismo patologico?

“Capitano tutte a me”, ecco una chiave importante su cui riflettere: gli altri sembrano sempre avere un pizzico di fortuna in più, siamo noi gli sfigati. Sì, perché la vita altrui vista attraverso la lente della distanza è sempre più facile, o almeno così appare in lontananza.

In realtà quello del vittimismo è un approccio alla vita frustrante, perché si tratta di uno sguardo allenato a vedere unicamente la difficoltà. Le avversità si abbattono sulle nostre spalle, è vero, e noi non sappiamo darci una spiegazione, trovare un senso o una giustificazione. Eppure scoprire la propria resilienza ha profondamente a che fare con la capacità di guardare le cose in maniera differente, concentrando l’attenzione su che cosa siamo e diventiamo nel tempo, anziché sul singolo evento o il nostro confronto con gli altri.

Osserva quanto spesso, nei discorsi che fai a te e agli altri, emergono frasi come “Sono sempre sfortunato”, “Finisce sempre così”, “Sempre io”: queste convinzioni, ripetute costantemente, creano un pensiero in grado di innescare una spirale negativa. Ci si pensa più sfortunati per spiegare il successo altrui e così facendo, senza rendersene conto, si finisce per alimentare una tendenza al vittimismo.

Uscire dal gioco “vittima Vs tiranno”

Dietro il vestito dell’autocommiserazione può nascondersi, segretamente, una strategia manipolatoria che porta a vivere senza riuscire a uscire dalla trappola della vittima. Il profondo senso di sfiducia verso la vita può diventare abitudine di pensiero: una convinzione negativa che rimarrà tale poiché non si è disposti a metterla realmente in discussione.

Il vittimismo, un meccanismo che racconta una difficoltà a affrontare la realtà, può essere collegato a una storia difficile o modalità apprese in famiglia. Tuttavia, quando la vittima diventa un ruolo che indossiamo abitualmente il rischio è l’alienazione: si finisce per vivere nel mondo delle convinzioni che noi stessi abbiamo contribuito a creare e diventare parafulmini per la sfortuna. Sì, sembra che la sfortuna attiri altra sfortuna.

Allenare la resilienza

Avere attenzione dall’altro significa essere ascoltati, compresi, amati: in una parola, accettati. Ecco il dramma di Calimero, che insieme allo zaino porta con sé la paura dell’essere respinto, il confuso dolore del sentirsi diverso.

Il timore del giudizio altrui smaschera quanto fragili sono le nostre fondamenta: dentro, ci sentiamo tutti insicuri. Il nostro bambino interiore trema, continuamente. Eppure, essere capaci di allenare la propria resilienza significa imparare a leggere gli eventi attraverso la lezione che essi, anche nella difficoltà, ci hanno permesso di imparare.

Ci ricorda il Carosello che Calimero non è nero… è sporco! Proprio così, quando osserviamo la nostra vita con la lente del vittimismo tutto si colora di nero. Cambiare significa soprattutto questo: provare a indossare un paio di occhiali diversi, modificare il proprio sguardo e il modo in cui interpretiamo le cose che accadono. Smettere di dare la colpa e iniziare a prendersi la responsabilità.

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