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Perché ho paura del lavoro?

Iniziare il primo lavoro o… ricominciare con una nuova professione: cambiare spaventa, ma puoi farcela. Ecco da dove partire.

Secondo i dati Istat il tasso di disoccupazione scende. Leggendo le statistiche, sembrano allontanarsi i tempi più neri della crisi, quando tagli e licenziamenti avevano dato avvio a una nuova routine del lavoro, fatta di depressione e speranze cadute a picco. Eppure, al di là dei numeri, sotto la crosta di apparente normalità, si nasconde l’estrema vulnerabilità di una pelle ferita, ustionata e mai guarita. Il livello di malcontento dei lavoratori è alto. La sensazione di precarietà può trasformarsi in un terremoto psicologico in cui si finisce per svilire se stessi, smettere di credere nelle proprie competenze e adeguarsi, nel senso più frustrante del termine. E allora da dove ripartire?

Di fronte a un lavoro che non c’è, è facile cadere nella paura di non farcela, non essere abbastanza bravi: non essere all’altezza. Ecco, la prima paura da sfatare è proprio questa: non è vero che non sei abbastanza. Il momento di esporsi arriva quando prendi la decisione di farlo sul serio e inizi ad accorgerti del tuo potenziale.

Paura di inviare curriculum, il nostro specchio 

Efficienza e competenza sono considerate parole chiave nel mondo del lavoro di oggi. Diventiamo sempre più ipercompetenti e il curriculum vitae di frequente diventa uno specchio dove si manifesta il bisogno di rendersi appetibili, strillato come diktat e ricetta di successo. In tre pagine si finisce per concentrare un accumulo di dati utili, fra liste di diplomi ottenuti, esperienze lavorative, competenze sociali vaghe (si vedano diciture come “amo lavorare in team”) e, qualche volta, mezze bugie.

La verità è che non tutti abbiamo la capacità di lavorare in team, doti da leader o competenze che ci rendono comunicatori nati. Invece che amplificare le qualità considerate le più appetibili sul mercato, meglio valorizzare o far brillare le proprie competenze più vere, a livello professionale ma anche umano. A volte, prima di un colloquio, la paura è proprio quella di sentirsi giudicati, non adatti o fuoriluogo: sii forte di quello che sei, delle tue scelte passate e, se senti di aver commesso degli errori, ammettilo e spiega cos’hai imparato da questi. Nessuno è perfetto ma la capacità di rialzarsi dopo una caduta è sempre un punto di forza. 

Scrivere di impegno, invece, problem solving e senso di responsabilità, a meno che non sia supportato da esempi veri ed esperienze pratiche, significa utilizzare parole ormai sfruttate e abusate che la mente del selezionatore salterà a piè pari… per andare direttamente al succo del discorso: i fatti. Sei la persona giusta per l’impiego in cui ti stai candidando?

Essere disposti a tutto… non aiuta

Viviamo in una generale carestia e abbiamo così fame di lavoro che spesso perdiamo di vista un dettaglio fondamentale: proporti per qualcosa che non fa per te alla fine rischia solo di peggiorare, anziché migliorare, la tua vita. Lo scopo del gioco non è essere assunti a tutti i costi, bensì trovare un’occupazione in grado di rispondere alle tue necessità e al tempo stesso, essere in un ambiente in cui tu ti possa muovere agevolmente.

È chiaro che siamo disposti a fare compromessi in virtù di ciò che serve, dall’affitto alle necessità dei figli, tuttavia l’ansia continua rischia di farci andare incontro a situazioni frustranti. Colpire l’attenzione del datore di lavoro, nel cv o durante un colloquio, inviare centinaia di cv o riciclarsi per tutto è un’arma a doppio taglio e mina la tua credibilità. 

Trasformare le idee in un progetto

«Quanto sei presente in quello che fai?» ci invita a riflettere Diego Leone, imprenditore e coltivatore di sogni, come ama definirsi. Sì, perché ai sogni c’è chi crede ancora e non si tratta di utopia, anzi. La vera sfida è sapere che un desiderio, per poter essere realizzato, ha bisogno di atterrare e trasformarsi grazie al contatto con la realtà. Questo significa dare concretezza alle idee e essere in grado di calarle nel mondo in cui viviamo: come? Realizzando un progetto.

Dalle indagini emerge che gli indici di produzione relativi alle startup sono in calo: altissima è la percentuale dei progetti che naufraga entro il primo anno dalla creazione. Il contesto italiano non aiuta, bisogna ammetterlo. Reso difficile da schemi di sviluppo poco al passo con i tempi, risulta critico anche a causa di fattori come burocrazia e pressione fiscale. Non solo. Spesso si sottovaluta un passaggio fondamentale. «Qual è il valore aggiunto? Avere un’idea non basta» osserva Diego Leone: «Verificare le possibilità significa iniziare a chiedersi se esiste realmente un bisogno alla base, ovvero valutare se davvero quello che intendo offrire può interessare il pubblico».

Prima di pensare a come ottenere il budget abbiamo bisogno di sapere se la nostra idea può reggersi sulle proprie gambe, altrimenti rischiamo di sprecare energie, risorse e accumulare frustrazione minando la fiducia in noi stessi. Questo è uno dei motivi per cui, prima di valutare il modello di business, è importante porsi qualche domanda, iniziando da se stessi.

La paura del successo

Quali sono i blocchi che ci allontanano dalla nostra realizzazione? Uno dei timori più frequenti è il pensiero del giudizio altrui, così come la paura dell’instabilità economica, che in fondo è parte di una condizione emotiva più ampia: l’uscita dalla nostra zona di comfort. Accade quando viene toccato qualcosa nel profondo che minaccia la nostra sopravvivenza: ci sentiamo aggrediti e proviamo all’istante una paura incontenibile, all’inizio difficile da gestire. Se lascio il lavoro a tempo indeterminato cosa penserà la mia famiglia? Se provo a realizzare quello che ho in mente come verrò visto dagli altri?

«La paura del successo è più frequente di quanto non si creda. Se il sogno si realizza come cambierà la mia vita?» racconta Diego Leone: «Ce la posso fare? Ecco una domanda che capita a tutti di farsi nei momenti davvero importanti. È successo anche a me, e la forza che ho scoperto è ciò che mi ha permesso di dire: sì, posso farcela».

Prendere una decisione nei confronti di se stessi ha una carica dirompente, perché rappresenta il momento in cui ci esponiamo e, consapevolmente, affermiamo un’intenzione assumendola come impegno. In questo magico istante all’improvviso vedi con chiarezza le modalità che hai sempre utilizzato, e che ti hanno portato fino a qui, con i risultati che sai. Quando sei in questa situazione la paura è più forte che mai, eppure ti trovi nel cuore del cambiamento: la trasformazione inizia quando scegliamo di prenderci la responsabilità del nostro sogno e della nostra vita. A volte succede per disperazione, perché siamo arrivati in un vicolo cieco o semplicemente quando arriviamo a non poterne più.

Quando accade rompiamo la cieca lealtà verso l’immagine che abbiamo creato negli anni e ci apriamo alla possibilità di immaginare noi stessi con una nuova identità, un sé più fluido e in connessione con ciò che siamo adesso. Ma uscire fuori dalla zona di comfort significa anche accettare di fare delle rinunce, scommettere, fare fatica.. e non sempre siamo disponibili a farlo, per questo è utile interrogarsi con onestà sui nostri bisogni.

Scopri il tuo ikigai

L’espressione Ikigai proviene da un concetto giapponese che oggi si sta diffondendo anche in Occidente: qual è il motivo per cui ti svegli ogni mattina? Questo è il tuo Ikigai, ognuno di noi ne ha uno. In fondo è il senso che diamo alla nostra vita: un complesso amalgama di valori, desideri e bisogni di felicità, di cui spesso non ci rendiamo conto ma che mettiamo in ogni cosa che facciamo.

«A livello professionale l’ikigai è uno strumento di riflessione che aiuta a entrare in relazione con i nostri bisogni autentici, ma in realtà comprende tutti gli aspetti della vita» chiarisce Diego Leone. Identificare quello che amiamo davvero e che ci dà piacere gioca un ruolo importante tanto quanto individuare ciò che può avvicinarci alla soddisfazione delle nostre necessità materiali. Sentire di avere una passione è splendido, ma quando manca il lato pratico di ancoraggio ai bisogni concreti rischia di trascinarci nella precarietà economica. Al contrario, una lavoro soddisfacente che, però, non tiene in alcun conto la nostra vocazione può generare un senso di svilimento e inutilità.

«Coltivare un sogno significa sporcarsi le mani» sorride Diego Leone. Vuol dire dedicarsi ogni giorno al proprio sogno, anche mentre fai altro perché magari lavori otto ore altrove. Significa impegnare una parte del tuo tempo per la costruzione del sogno, che in questo caso è professionale. Dargli cura e attenzione, proprio come faresti con una pianta. Le piante hanno bisogno di nutrimento, protezione dai pericoli esterni, osservazione: come sta crescendo?

Un altro fattore fondamentale è il tempo, perché controllare di continuo i progressi può diventare controproducente e rischia di trasformare il desiderio in un’ossessione. Saper vivere l’attesa, in fondo, è avere il coraggio di nutrire la speranza che i semi cresceranno: un atto di fiducia.

Non è mai troppo tardi: davvero?

Quante volte parlando di un sogno irrealizzato ci si esprime con un vocabolario che dà la colpa alle contingenze esterne? “Ormai…”, “Alla mia età”, “Avrei voluto, ma…”: il desiderio nel cassetto diventa una scusa per evitare di provarci sul serio e ci si consola ripetendo a se stessi che non è possibile. Come chiarisce Diego Leone, un sogno può anche fallire, o magari farci capire che il nostro vero obiettivo è un altro: «Fino a quando non ci provi non puoi saperlo. Può andare bene, come male: non succede nulla. Puoi sempre iniziare di nuovo».

Ed è questo, in fondo, il grande successo dietro a un fallimento: ci insegna a cadere meglio. Più elastici, allenati e in grado di  rialzarci, come animali guidati da un sesto senso ancestrale impariamo a stare in bilico, camminiamo sull’abisso della paura. E continuiamo a provarci, ancora e ancora, un’altra volta in più.

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