Digiuno analgesico contro il dolore

Uno studio condotto da medici napoletani ha dimostrato che un regime alimentare controllato con poche calorie e per periodi intermittenti, potrebbe essere utile a combattere il dolore cronico neuropatico, come sciatalgie, nevralgie e dolori provocati da ernie

Digiuno analgesico contro il dolore

Digiunare per combattere il dolore. Un regime alimentare controllato, con pochissime calorie, per periodi intermittenti, potrebbe essere utile a combattere il dolore cronico neuropatico, come sciatalgie, nevralgie e dolori provocati da ernie.
Un gruppo di ricercatori dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli ha identificato il possibile coinvolgimento di un nuovo recettore, denominato Hcar2, che sembra avere un potere analgesico, al momento su topi da laboratorio. I risultati – osservano i ricercatori – potrebbero aprire nuove strade per il trattamento di questa patologia cronico-degenerativa, che vede combinare la farmacologia con regimi alimentari condizionati come il digiuno o la stessa dieta chetogena.

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“Ad oggi – ricorda Sabatino Maione, ordinario di Farmacologia all’università partenopea e coordinatore dello studio – la patologia neuropatica viene trattata con farmaci antidepressivi, anticonvulsivanti e terapie di supporto psicocognitivo, poiché non risponde alla maggior parte dei classici farmaci analgesici”.
“Sui topi si parla di due giorni di digiuno – spiega Livio Luongo, uno dei ricercatori del gruppo di studio – che nell’uomo corrisponderebbero a circa 4-5 giorni di digiuno. Proprio nei topi abbiamo avuto conferma che il recettore Hcar2 – continua Luongo – è stimolato dal beta-idrossi-butirrato (Bhb) un chetone che viene prodotto in maggiori quantità dal digiuno prolungato o da una dieta chetogena. In questo caso il dolore diventa minore, ma anche molto trattabile con farmaci. Per molte persone, invece, che soffrono di dolore cronico neuropatico, ci sono pochissime opportunità terapeutiche e spesso i pazienti sono refrattari. Questa ricerca e i risultati raggiunti – conclude il ricercatore – ci fanno sperare in una serie di possibili terapie che renderebbero la vita migliore a questi pazienti”.
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