A chi conviene davvero la Flat Tax?

  • 25 06 2019

Salvini insiste, Tria frena, l’Ue non è convinta. Il taglio delle aliquote Irpef è al centro dello scontro politico. Nato per alleggerire la pressione fiscale sulle famiglie dai redditi più bassi, rischia di appesantire i conti pubblici. E non è privo di paradossi

L’ultima battaglia di Matteo Salvini è la “flat tax”. Come le pensioni a quota 100, l’ha promessa e vuole portarla a casa. Il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha però tirato il freno: «Si faccia solo se graduale e coperta da tagli alla spesa pubblica». E anche su questa riforma si sono accesi i riflettori dell’Ue. Ecco 4 domande (e risposte) per capirne di più.

Come funziona?

«La flat tax è il taglio secco delle aliquote su cui paghiamo l’Irpef, sia come numero sia come percentuale: serve per semplificare il fisco e alleggerire la pressione sulle famiglie» spiega Massimo Baldini, professore di Economia all’università di Modena e Reggio Emilia e autore di “Flat tax: parti uguali tra disuguali?” (Il Mulino). Oggi si applicano 5 aliquote progressive, dalla più bassa (23%, entro i 15.000 euro) alla più alta (43% oltre i 75.000).

L’idea iniziale della Lega, inserita nel famoso “contratto di governo”, era far pagare il 15% di tasse fino a 50-60.000 euro e applicare il 20% su tutto il resto. «Ma una rivoluzione simile costerebbe 50 miliardi. Troppi» dice Baldini.

Quando entra in vigore?

L’orientamento attuale è di partire nel 2020 con il 15% applicato a chi ha un reddito fino a 50.000 euro, lasciando invariata la situazione per gli altri. Per tutelare le famiglie, non si calcolerebbe più il reddito personale, ma quello dell’intero nucleo. Così il costo previsto sarebbe intorno ai 12-17 miliardi.

Chi ci guadagnerebbe?

Difficile dirlo. «La Lega vorrebbe accompagnare il taglio delle tasse a una riduzione delle detrazioni fiscali, ma non ha mai indicato quali. Solo con questo dettaglio i contribuenti possono soppesare l’effetto del nuovo regime, che, da quanto trapela, potrebbe anche restare una scelta facoltativa» ammette il professor Baldini. Di certo, oggi tra i redditi bassi l’Irpef non è un peso.

Nel 2018, al di là delle aliquote formali, 10 milioni di persone non hanno versato 1 euro, o perché rientravano nella zona di esenzione totale (fino a 8.714 euro l’anno) o proprio per effetto di detrazioni e deduzioni. E secondo la Cgil, chi guadagna fino a 26.000 euro oggi in media paga comunque meno del 15% di cui si discute. «Si può ipotizzare il beneficio maggiore per i nuclei monoreddito fra i 30.000 e i 40.000 euro, che godrebbero di uno sgravio compreso tra 2.500 e 5.000 euro».

Perché l’Unione europea è dubbiosa?

«Non per l’idea in sé, ma per la ricaduta sui conti pubblici italiani» risponde Baldini. «Dobbiamo già racimolare 23 miliardi per bloccare l’aumento dell’Iva e le previsioni per il 2020 ci vedono sforare il rapporto deficit-Pil al 3%. Il governo prevede di recuperare fino a 4 miliardi dal 2019, per effetto della mancata adesione di tutti gli interessati a quota 100 e reddito di cittadinanza. Ma è sempre poco per coprire il fabbisogno».

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