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Bobo Rondelli, il cantante che ha picchiato la testa

Tutte le volte che vado a Livorno, da qualche anno a questa parte, oltre a pensare «che bello questo posto qui», penso «ora incontro Bobo Rondelli». O meglio penso: «speriamo di incontrare Bobo Rondelli».

Rondelli lo potrei incotrare sulla spiaggia, in una baracchina che vende il pesce sul lungomare, o da Johnny Paranza, che fa dei fritti indimenticabili, a piazza Mazzini, oppure alla Barrocciaia, vicino al mercato, dove invece fanno i panini.

Spero di incontrarlo perché sicuramente, se lo incontro, starà cantando e suonando il suo ukulele, e starà facendo ridere qualcuno, e se starà cantando e e suonando e ridendo, vorrò sentirlo, perché è raro incontrare un artista così autentico. Figuriamoci nel suo habitat naturale.

Roberto Rondelli, detto Bobo, cinquantino, con i capelli un po’  più lunghi di quanto sarebbe conveniente per un uomo della sua età, i baffi e le magliette da marinaio, con una vita privata sempre sull’orlo di un’esibita e ironizzata miseria, sul palco è un animale. È uno degli spettacoli più impressionanti che abbia visto in scena. Impressionante in quel modo attraente e inquietante come solo i fenomeni.

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L’ho conosciuto grazie a un documentario del regista livornese Paolo VirzìL’uomo che aveva picchiato la testa – che, da amico, ha raccontato in modo intimo e senza censure, senza farne un’agiografia insomma, la storia di un artista che stava per arrivare al successo – negli anni ’90, con un gruppo che si chiamava Ottavo padiglione – ed è stato incapace di tenerselo. O meglio, oltre a perdere puntualmente i bigliettini da visita degli agenti che gli si proponevano, non ha voluto scendere a certi compromessi: ripulirsi e pettinarsi. Perciò è rimasto a Livorno, amato alla follia dai suoi concittadini e sconosciuto oltre la statale Firenze-Pisa-Livorno. Almeno fino a quando Virzì non l’ha riportato alla ribalta nazionale.

Che cosa volesse dire “ripulirsi” e “pettinarsi” l’ho capito la prima volta che l’ho visto in concerto.

Rondelli è capace di creare momenti di poesia unici, canzoni d’amore tra le più belle che abbia mai sentito (su tutte, Licantropi o La marmellata), e sporcarle un attimo dopo con frasi sboccate, inni alla “topa” o alla masturbazione.

Oppure scrivere canzoni allegre per il figlio, solo per non fargli più dire che suo papà canta solo canzoni tristi.

Oppure ancora annunciare una canzone oscena e poi invece è una bellissima canzone dall’ultimo album – Come i carnevali – dedicata alla mamma Nara, che è morta da poco. L’ultima volta che l’ho visto in concerto, la scorsa settimana a Roma, l’ha cantata in modo talmente intenso, così potentemente emozionante, che la band ha smesso di accompagnarlo e lo ha lasciato sul palco con la voce nuda.

Io e parecchia altra gente lì ci siamo messi a piangere e volevamo abbracciarci tutti, anche se non ci conoscevamo, per rendere più sopportabile la malinconia.

Quando i suoi concerti finiscono mi rimane sempre la sensazione di essere entrato in contatto con una persona in un modo autentico, sincero come pochissimi amici cari. E come il più caro fra gli amici, spero di rivederlo al più presto.

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