Alfie Evans: perché proprio in Italia?

I genitori del piccolo Alfie Evans chiedevano la cittadinanza italiana per il figlio (richiesta respinta). In cosa l'Italia è diversa dalla Gran Bretagna nel regolamentare il fine vita? La verità è che la nostra legge è all'avanguardia nel rispetto del malato 

La patologia è stata chiamata “la malattia di Alfie”, per lui è stato creato un hastag (#AlfieEvans) e siamo in molti col fiato sospeso a seguire il mix di vicende legali, burocratiche, sanitarie, frammiste alle notizie sul suo stato di salute.

Una vicenda, quella di Alfie Evans, che è tormentata e solleva molti quesiti sul fine vita, sulla decisione di “staccare la spina” e sulle differenze che sono prepotentemente emerse tra l’Italia e la Gran Bretagna. Differenze così abissali da avere portato addirittura ad attivare una procedura rapida per dare la cittadinanza italiana ad Alfie (poi negata) e garantirgli le terapie nel nostro Paese. «La vicenda del bambino è stata montata esageratamente, anche dando delle illusioni ai genitori, quando invece purtroppo si tratta di una patologia a prognosi infausta», spiega Giorgio Lambertenghi, Presidente del Comitato etico dell’Istituto Auxologico di Milano. «Certo è che ha portato alla luce l’assurdità della legge inglese di fronte a queste situazioni e l’atteggiamento della classe medica che non agisce in scienza e coscienza ma si adegua alla decisione di un giudice. In Italia, invece, il medico si adegua al desiderio del paziente o, nel caso di minori, dei genitori: non perché siamo di estrazione cattolica, ma perché chi cura ha il dovere di rispettare sempre la persona, anche – soprattutto – nel momento del fine vita».

In Gran Bretagna, infatti, spetta al giudice la facoltà di decidere per un malato se staccare o meno il respiratore. La spinta che determina il verdetto? Puramente economica: un paziente in queste condizioni è un costo diretto perché implica controllo sanitari, il lavoro dei medici, eventualmente farmaci, l’uso di un macchinario ad hoc, e indiretti per l’impegno della famiglia. Questo, per quanto riguarda la normativa inglese. Da noi non è così. Anche grazie alla legge sul consenso informato che è entrata in vigore ai primi del 2018. «C’è chi è insorto a tal proposito parlando di eutanasia, ma non è così e questa legge parla chiaro» sottolinea il professor Lambertenghi. «Dice che il paziente ha diritto a tutto ciò che fa parte della pratica clinica. Quindi, anche alla sedazione palliativa profonda, morfina compresa, se il paziente terminale soffre, per accompagnarlo negli ultimi giorni di vita. Ma anche alimentazione forzata, idratazione, ossigenazione, respirazione artificiale, se è il desiderio del paziente stesso oppure dei familiari in caso di minorenni, come Alfie».

La legge italiana, va sottolineato, difende il malato e le sue volontà, anche espresse per voce di un genitore. E se il medico non le rispetta, è perseguibile penalmente. «Vengono i brividi a pensare al trattamento subito dal bambino», dice il professor Lambertenghi. «Non si invocano cure dove non esistono, come in questo caso. Ma esiste l’assistenza, che è un’altra cosa. Accompagnare un malato significa ad esempio evitare il rischio di morte per soffocamento, come stava accadendo al bambino quando gli hanno staccato la spina». La legge italiana è molto chiara anche in tal senso: se viene presa la decisione di spegnere l’apparecchiatura che permette la respirazione artificiale, perché non ci sono più altre possibilità, deve essere presente un’anestesista per la sedazione profonda. «Bambini e genitori sono ben tutelati nel nostro Paese», conclude il professor Lambertenghi. «Anche quando il figlio è destinato a una morte precoce a causa di gravi malattie. Abbiamo ospedali pediatrici all’avanguardia, oltre che a Roma, anche a Milano, Monza, Padova, Genova, Bologna, Firenze, per citare solo i principali. E proprio per i bambini con una malattia terminale, non solo oncologica, sta nascendo a Milano il primo hospice interamente pediatrico».

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