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Bambini iperattivi: il gilet di sabbia non serve

In 200 scuole tedesche i bambini iperattivi indossano un gilet imbottito di sabbia. E fioccano le polemiche. Ecco cosa servirebbe davvero

Ha creato scalpore e polemiche la notizia, giunta dalla Germania, dove 200 scuole hanno introdotto speciali gilet imbottiti di sabbia per i bambini iperattivi: servirebbero a “calmarli” e a tenere seduti gli alunni con Deficit di Attenzione e Iperattività, i cosiddetti ADHD. Ma le critiche non mancano e non arrivano solo dai genitori. “È un’iniziativa surreale, che non meriterebbe alcun commento” dice a Donna Moderna Daniele Novara, pedagogista, scrittore, fondatore e direttore del Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti. “Un bambino iperattivo non va punito, ma capito, per individuare il motivo del suo comportamento. Il problema va risolto a monte, non a valle” commenta il Paolo Crepet, psichiatra, scrittore e sociologo italiano.

“I dubbi riguardano non solo la mancanza di ricerche scientifiche in merito, che spieghino l’utilità del gilet, ma anche la reale efficacia a lungo termine” spiega Jacopo Lorenzetti, psicologo specializzato in apprendimento, docente e formatore del Centro clinico Leonardo di Psicologia dell’età evolutiva.

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L’iniziativa tedesca

Il gilet imbottito, simile a un giubbotto antiproiettili, ha un peso che varia da 1,2 a 6 kg ed è stato adottato come strumento per i bambini iperattivi in diversi istituti tedeschi, come la scuola Grumbrechtstrasse di Amburgo. Secondo i promotori i vantaggi sono concreti e sopratutto si evita il ricorso a psicofarmaci, come il Ritalin: “Gli alunni saltano in piedi all’idea di poterlo avere, così lo diamo anche a quelli che non ne hanno bisogno, per assicurarci che non sia collegato ad alcuna forma di discriminazione” ha spiegato Gehild de Wall, responsabile dell’unità di inclusione dell’istituto. Ma non sono mancate polemiche e perplessità da parte di alcuni genitori.

Il precedente americano

I gilet introdotti in Germania ricordano quelli già in uso negli Stati Uniti per i bambini autistici che, soprattutto nei casi di ADHD, rappresentano un’alternativa agli psicofarmaci somministrati già dai 7 anni. Il ricorso al giubbotto negli Usa è tale che esiste un business fiorente, con tanto di siti specializzati nella vendita di prodotti analoghi, per tutte le età. La Germania, prima in Europa a farlo, sembra aver dunque seguito l’esempio americano, proprio come alternativa al ricorso a medicinali come Ritalin o Prozac. “In Europa esistono diversi Paesi come l’Olanda, dove ho lavorato, che utilizzano psicofarmaci, mentre l’Italia frena rispetto al loro utilizzo per risolvere problematiche comportamentali o disturbi dell’apprendimento” spiega Lorenzetti.

“Ciò che sorprende dell’iniziativa tedesca è che mancano ricerche che confermino la validità di questo strumento, soprattutto a lungo termine: il gilet va indossato per non oltre 30 minuti, ma trascorsa la mezz’ora cosa succede? Come prosegue il lavoro in classe per gli alunni iperattivi? Cosa accadrà quando saranno adulti? Il nostro approccio è totalmente differente rispetto a quello tedesco: l’obiettivo è sempre quello di portare il bambino o il ragazzo, gradualmente, all’autonomia. Presso il nostro centro abbiamo diversi 14enni che sono consapevoli dei propri limiti di attenzione e lo dichiarano, dimostrando una grande consapevolezza” aggiunge Lorenzetti.

La costrizione fisica è utile o dannosa?

“Il giubbotto mira a bloccare fisicamente il corpo: è come se una persona mettesse le proprie mani sulle spalle di un bambino. Ma ci sono diversi studi che dimostrano che i soggetti iperattivi ottengono risultati migliori se non sono costretti a rimanere fermi. Una ricerca del 2015 prevedeva sequenze di test di memoria in due modalità: da fermi o con la possibilità di muoversi, ad esempio tamburellando con le dita o dondolandosi sulla sedia; ebbene, i punteggi migliori sono stati ottenuti con la seconda tipologia di esecuzione” spiega lo psicologo.

Usa, i giubbotti per l’autismo

“La realtà italiana è molto differente rispetto a quella americana, alla quale quella tedesca sembra rifarsi: se però appare difficile un maggiore ricorso agli psicofarmaci, l’idea di “gadget miracoloso” che possa risolvere le difficoltà di alcuni bambini potrebbe anche prendere piede da noi, come dimostrato qualche mese fa dai fidget spinners: molti genitori hanno creduto che quell’oggetto da 2 o 5 euro potesse avere effetti benefici sui figli iperattivi, cosa poi rivelatasi infondata” dice Lorenzetti.

“A me sembra piuttosto una proposta commerciale, come altre in passato” commenta Daniele Novara, che all’iperattivismo e all’ADHD ha dedicato diverse pagine anche nel suo ultimo libro Non è colpa dei bambini (BUR). “Il marketing spesso cerca di intercettare le “paturnie genitoriali” e trasformarle in business, come è accaduto anche in Italia tempo fa, quando vennero commercializzati i pannolini per bambini fino ai 12 anni. Il problema, piuttosto, è che siamo in presenza di un eccesso di diagnosi e certificazioni neuropsichiatriche, che puntano a psichiatrizzare le immaturità e difficoltà infantili, a mio avviso in maniera illegittima. Bisogna che si riporti la discussione a un livello educativo e non medico-psichiatrico”.

Iperattività in aumento, perché?

I dati del MIUR, il Ministero dell’Istruzione, parlano chiaro: “In 15 anni i casi di disabilità previsti dalla legge 104, e dunque riconosciuti, sono raddoppiati, a fronte invece di una diminuzione consistente di quelle disabilità classiche come la sindrome di Down, l’epilessia, ecc., che sono quasi scomparse. Oggi si parla di disabilità psico-emotive e comportamentali la cui diagnosi, però, è difficilissima. Io ritengo che ci sia confusione tra la normale immaturità e vivacità dei bambini, e patologie come il Disturbo della Condotta o l’ADHD” aggiunge Novara.

“Come diceva Giovanni Bollea, il pioniere della neuropsichiatria infantile, “In età evolutiva nulla è individuale”, dunque ciò che accade ai bambini deve essere messo in relazione al contesto familiare e alla situazione sociale, perché il bambino reagisce a queste. A meno che non si pensi che l’iperattività sia genetica, ma è una teoria tutta da dimostrare” – spiega il Prof. Crepet – “La vera difficoltà, piuttosto, è occuparsi di un problema, guardare cosa accade dentro le famiglie e intervenire con una didattica diversa anche a scuola. Ma costa fatica, tempo e denaro, e la nostra società non sembra intenzionata a investire in questa direzione”.

I dati


Le Rilevazioni Integrative sulle Scuole del Ministero dell’Istruzione (MIUR) evidenziano come gli alunni con disabilità nell’a.s. 2014-2015 fossero 167.804: in 10 anni sono però cresciuti del 39,9%, arrivando nell’a.s. 2014-2015 a 234.788. Una crescita in controtendenza rispetto al calo demografico. Secondo i dati Istat (dicembre del 2016) i maschi costituiscono oltre il 65% degli alunni con disabilità.

L’International Academy for Research in Learning Disabilities, specializzata in ricerche sulle difficoltà di apprendimento, stima che questo genere di problemi dovrebbe interessare solo il 2,5% della popolazione scolastica a livello mondiale (e lo 0,5-1% per quanto riguarda la discalculia, che si riferisce alle difficoltà connesse a numeri e calcoli). In Italia, invece, come riferito nel libro di Novara, le segnalazioni indicherebbero che “il 20-30% della popolazione scolastica soffrirebbe di “difficoltà significative nell’apprendere le abilità di calcolo“, con conseguente avvio di un percorso di diagnosi e classificazione in base a etichette specifiche.

DSA, BES, PDP e ADHD


Con l’introduzione della legge 104/92 è stata prevista la presenza di un insegnante di sostegno per chi ha disabilità fisiche o cognitive, mentre per i DSA, ai quali sono riconosciuti Disturbi Specifici dell’Apprendimento, sono generalmente contemplati altri tipi di intervento. Dislessia, disortografia, discalculia, disgrafia, che riguardano specifiche competenze come lettura, scrittura e calcolo, sono diagnosticate sia tramite screening effettuati a scuola, sia con l’intervento di professionisti come logopedista, psicologo o neuropsichiatra, che esercitano presso la ASL o privatamente.

In caso di certificazione, lo studente con DSA può disporre di un PDP, Piano Didattico Personalizzato, che contiene specifiche modifiche didattiche messe a punto dai docenti dell’alunno. “Una adeguata e personalizzata risposta” è prevista anche dalla Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012 relativa ai BES, i Bisogni Educativi Speciali, che comprendono deficit del linguaggio, delle attività non verbali, della coordinazione motoria, ma anche difficoltà sociali, culturali, linguistiche e ADHD.

Troppe etichette?

Daniele Novara parla di “patologizzazione di ogni tipo di difficoltà”: di fronte al moltiplicarsi delle certificazioni, ritiene che ci sia “una ingerenza assolutamente arbitraria e pericolosa: un bambino classificato come ADHD rischia di essere etichettato per sempre. Io eliminerei anche gli screening dalla scuola”.

“Esiste una forte pressione da parte delle case farmaceutiche, come dimostrano la realtà americana e canadese, dove gli psicofarmaci vengono somministrati anche ai bambini con disinvoltura: l’industria degli psicofarmaci ha interesse a creare un sempre maggiore business neuropsichiatrico” prosegue Crepet. “Basta osservare la crescente e rapida apertura di centri per le certificazioni neuropsichiatriche per bambini che si sta verificando in grandi città come Milano”.

Anche l’autismo è in crescita

Secondo i dati riferiti in occasione dell’ultima Giornata mondiale di sensibilizzazione sull’autismo (2 aprile), negli Usa ci sono 3,5 milioni di casi tra bambini e adulti, mentre a livello mondiale si arriverebbe a 60 milioni di persone affette da ADS, Disturbi dello spettro autistico.

In Italia l’Istituto Superiore di Sanità ne stima 3/500.000; ne sarebbe affetto un bambino su 160ma il numero esatto non è noto per le difficoltà di diagnosi.

“I due principali metodi di valutazione, DSM-V (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, 2013) e l’ICD (Classificazione internazionale dei disturbi e delle malattie dell’Organizzazione mondiale della sanità), a oggi differiscono in modo significativo in merito ai criteri diagnostici per l’autismo. Basta tale discrepanza a suscitare il dubbio: a quale classificazione fare riferimento?” si chiede Novara.

Meglio definire ammalato un bambino che educarlo


“In una scuola, e in una società, che sta abbandonando una delle sue missioni fondamentali – crescere le nuove generazioni – è diventato perversamente più semplice definire malato un bambino che non riusciamo a educare” spiega il pedagogista, che aggiunge: “Mi augurerei che i docenti usino ancora termini come birichino, per definire la vivacità degli alunni”. Novara da qualche tempo tiene una serie di incontri con i genitori in diverse città italiane: “La scuola e i genitori devono essere aiutati nell’educazione delle nuove generazioni”.

Il ruolo dei genitori

Ma cosa bisogna fare se il proprio figlio è “troppo vivace”? “Intanto non occorre perdersi in un bicchiere d’acqua, spesso basta il rispetto di alcune regole base: 1) un bambino di 6/7 anni ha bisogno di dormire almeno 10 ore; 2) la colazione non andrebbe mai saltata, perché altrimenti diventa difficile, per un bambino, “reggere” tutta la mattina a scuola; 3) è consigliabile toglierlo dai videoschermi di tablet e simili, che non fanno altro che peggiorare la situazione; 4) occorre toglierli anche dal lettone dei genitori dopo 3 anni; 4) è necessario che i genitori facciano squadra tra loro” aggiunge il pedagogista. E’ d’accordo anche Paolo Crepet: “I bambini in questa società vivono peggio: non è vero che la tecnologia digitale aiuta un bambino iperattivo, al contrario contribuisce ad agitarlo ancora di più”. 

Genitori sempre più fragili


“Stiamo assistendo a una sempre maggiore fragilità del genitore, c’è un’immedesimazione totale con i figli, mentre viene meno il ruolo educativo di padre e madre, che finiscono col mettersi alla pari coi figli. In questo modo si crea una ‘orfanità educativa’, dove i genitori sono sostituiti da amiconi che vogliono parlare, parlare, parlare con i figli, anche piccoli, cercando di spiegare loro concetti che non sono in grado di comprendere” conclude Novara. “Il risultato è un cortocircuito, nel quale l’adulto perde la propria responsabilità educativa“.

“Certamente la società è cambiata e i genitori devono porsi delle domande: questo non significa colpevolizzarsi, ma responsabilizzarsi” commenta Paolo Crepet.

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