violenza donne

Non dimentichiamo le donne vittime di violenza

Il 25 novembre si celebra in tutto il mondo la giornata contro la violenza sulle donne. Qui abbiamo raccolto alcune delle storie che più hanno colpito l'opinione pubblica italiana negli ultimi anni per riflettere sulle dinamiche del fenomeno, di cui parla troppo spesso in maniera inadeguata e insufficiente

Manuela si era innamorata di Fabrizio, un suo collega: per lui aveva lasciato l’ex. Non le importava se quell’uomo fosse già sposato e padre di due figli. Lo amava, ma tra le sue braccia ha trovato la morte. Una morte orribile: uccisa in una cascina e sepolta in una buca da quell’uomo che poi è riuscito a mantenere un segreto così pesante nel cuore, ad andare persino in vacanza con la famiglia, a divertirsi con moglie e bambini, a sorridere, mentre lei era lì, nascosta in una buca in una cascina nella pianura padana. Non è andata meglio a Pamela, una vita complicata già a 18 anni, piegata dalla droga e poi fatta a pezzi, proprio come il suo corpo.

E poi ci sono Gessica e Lucia, il cui viso fresco e giovane è stato cancellato dall’acido gettatogli addosso da ex fidanzati che non hanno accettato il rifiuto. Le storie di Manuela, Pamela, Gessica, Lucia, così come quelle di Yara, Meredith, Sarah e Simonetta sono solo alcune delle più drammatiche che hanno segnato gli ultimi anni, mesi e settimane. Storie di donne e ragazze, morte per mano di uomini feroci. Casi che hanno tenuto banco per settimane, a volte mesi. Poi sono ricadute nel silenzio, eppure la strage di donne continua: sono oltre 130 i femminicidi nei confronti di madri, mogli, figlie che si consumano ogni anno, la maggior parte tra le mura domestiche. Gli assassini sono quegli stessi mariti, compagni o altri familiari dai quali le vittime si aspettavano protezione e tra le cui braccia hanno invece trovato la morte. Nei primi sei mesi del 2018, secondo Sos Stalking, i casi sono aumentati rispetto al 2017 (+30%). In 1 episodio su 5 chi ha ucciso aveva il divieto di avvicinamento.

La mappa della violenza

La distribuzione dei femminicidi è piuttosto omogenea tra le varie aree italiane. Le regioni nelle quali se ne registra il maggior numero sono Lombardia, Emilia-Romagna e Campania, mentre in termini relativi, dunque in rapporto alle donne residenti, spiccano i primati negativi di Umbria, Calabria e Campania. Le fasce di età più colpite sono quelle comprese tra i 25 e i 34 anni e tra i 45 e 54 anni. Nel 44,6% dei casi le vittime avevano già denunciato violenze o maltrattamenti. L’Italia, comunque, risulta tra i Paesi con il tasso più basso di omicidi nei confronti di donne (0,5 vittime ogni 100mila), inferiore del 50% rispetto alla media europea e più basso rispetto a quella statunitense (di quattro volte), secondo la Commissione d’Inchiesta sul femminicidio. I dati peggiori in Europa si registrano in Lettonia, Estonia, Lituania, Finlandia e Germania, mentre Grecia, Spagna e Portogallo hanno valori in linea con quelli italiani.

I numeri del fenomeno

Secondo l’Istat il 4,1% delle donne under 30 ha subito violenza sessuale quando era minorenne. Diminuiscono leggermente le vittime di violenze nel loro complesso, ma il numero di donne che hanno subito stupri e tentati stupri tra il 2005 e il 2014 è rimasto stabile, così come quelle che hanno vissuto forme più efferate come l’uso o la minaccia di pistole o coltelli. Aumenta, in compenso, la gravità delle violenze sessuali. Quasi una donna su tre (31,5%) ha subito nella vita una forma di violenza fisica o sessuale, in 652 sono state stuprate (3%), 746mila hanno subito un tentativo di stupro (3,5%). Nell’80% dei casi gli aggressori sono italiani, nel 15,1% sono stranieri. Molte delle violenze sono subite in famiglia, ma non denunciate se non quando ormai è troppo tardi, come confermano i casi di cronaca.

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Manuela Bailo, uccisa dall’amante e sepolta in una cascina (nella foto) ad Azzanello, nel Cremonese. Il suo corpo è stato ritrovato il 20 agosto 2018. Aveva 35 anni ed era scomparsa il 28 luglio.

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Antonietta Gargiulo è sopravvissuta alla strage della sua famiglia. La tragedia è avvenuta il 28 febbraio 2018 a Cisterna di Latina.

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Pamela Mastropietro aveva 18 anni: il suo corpo è stato ritrovato a pezzi dentro due valigie, a Macerata, il 30 gennaio 2018. 

Nella foto, i genitori della ragazza durante la trasmissione “Porta a Porta” condotta da Bruno Vespa.

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Sara di Pietrantonio, uccisa e bruciata dal fidanzato alla Magliana – periferia di Roma – il 29 maggio 2016.

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Elena Ceste scompare il 24 gennaio 2014. Il suo corpo viene ritrovato solo ad ottobre. Colpevole: il marito che l’ha uccisa strangolandola.

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Lucia Annibali, avvocato, venne sfregiata con l’acido dall’ex fidanzato, Luca Varani, la sera del 19 aprile del 2013. 

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Sfregiata con l’acido anche Gessica Notaro, 28 anni. Fu aggredita il 10 gennaio del 2017 sotto casa dall’ex, Jorge Edson Tavares, originario di Capoverde.

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Roberta Ragusa scompare in una notte di gennaio del 2012 a San Giuliano (in provincia di Pisa), dopo una lite col marito, Antonio Logli, che però si è sempre dichiarato innocente.

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Yara Gambirasio, la 13enne prima scomparsa, poi ritrovata senza vita nei campi vicino a Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo. 

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Sarah Scazzi ha appena 15 anni quando viene uccisa ad Avetrana, in provincia di Taranto, il 26 agosto 2010.

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Meredith Kercher, inglese di 22 anni, venne uccisa nella notte di Halloween del 2007.

Nella foto a destra, Amanda Knox, l’americana ventenne coinquilina di Meredith, a lungo ritenuta corresponsabile dell’omicidio.

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Simonetta Cesaroni venne trovata morta in via Poma a Roma il 7 agosto del 1990. Ancora non si conosce il nome del suo assassino.

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Il cadavere di Rosaria Lopez trovato nel cofano dell’auto. Il massacro del Circeo avvenne nel 1975.

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Donatella Colasanti, unica sopravvissuta al massacro del Circeo. Era il 1975, lei aveva 17 anni.

Sono dati che fanno impressione e alla vigilia della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, che si celebra in tutto il mondo il 25 novembre, vogliamo ripercorrere i casi di femminicidio più tristemente noti del nostro Paese. Un’occasione per raccontare ancora una volta quelle storie e invitare a riflettere sulle dinamiche comuni, i segnali d’allarme ignorati, i mancati interventi, le ricostruzioni parziali o faziose e le reazioni (spesso inadeguate) di istituzioni e opinione pubblica.

Manuela Bailo, uccisa dall’amante e sepolta in una cascina

Manuela è bionda, ha gli occhi chiari, un sorriso solare. La sua scomparsa improvvisa in piena estate rimane avvolta nel mistero per tre settimane, dal 28 luglio, quando se ne perdono i contatti, fino al 20 agosto, giorno in cui il corpo della 35enne bresciana viene ritrovato dentro una buca, sotto una lamiera in una cascina nelle campagne cremonesi, come confessa il suo omicida: Fabrizio Pasini, ex amante e collega di lavoro. Per lui Manuela Bailo aveva lasciato l’ex fidanzato Matteo Sandri, col quale però continuava a convivere. Con lui sognava forse un futuro, che quell’uomo, però, non voleva: 48 anni, sposato e padre di due figli, prima di crollare e indicare dove poter trovare il corpo della donna, era partito per le vacanze in Sardegna, come se nulla fosse. Con la moglie, dunque, e con i figli, con i quali ha trascorso giorni apparentemente spensierati. Non un cedimento, non un passo falso, almeno fino al ritorno a casa. Una volta tornato a casa, però, alla vista dei poliziotti alla sua porta, che chiedevano informazioni sulla collega scomparsa, è crollato.

Aveva conosciuto Manuela al lavoro e per lui la donna sarebbe stata disposta a tutto. Aveva persino accettato di continuare a vivere con l’ex, pur di mantenere le apparenze. Certo non immaginava che il “suo” Fabrizio sarebbe arrivato al punto di toglierle la vita una sera di fine luglio. I due si era incontrati: prima l’aperitivo, poi insieme vanno a Ospitaletto, a casa della madre di lui che non c’è perché è in vacanza ad Alghero con i suoi figli. Doveva essere «un incontro chiarificatore prima delle vacanze» secondo la testimonianza di Pasini, secondo il quale lui a un certo punto inciampa in un tappeto, si incrina una costola e insieme a Manuela va all’ospedale Civile di Brescia. Una telecamera di un vicino li riprende mentre escono alle 2. Alle 4 del mattino tornano, ma alle 6 a uscire nuovamente è solo lui, a torso nudo. L’omicidio è compiuto: secondo la versione dell’uomo lei sarebbe caduta dalle scale, rompendosi la testa, ma gli inquirenti ritengono che il piano fosse premeditato.

Antonietta Gargiulo, sopravvissuta alla strage della sua famiglia

Antonietta Gargiulo è viva, ma è come se fosse morta dentro: il marito, Luigi Capasso, ha ucciso le loro figlie di 8 e 14 anni, e si è tolto la vita il 28 febbraio 2018 a Cisterna di Latina. Il carabiniere 44enne aveva aspettato la moglie, 39 anni, all’alba davanti al garage di casa. Le aveva chiesto un chiarimento, non accettava che lei lo avesse lasciato e cacciato da quella casa nella quale viveva da sola con le figlie Alessia e Martina, mentre lui alloggiava in caserma. Poi aveva estratto la pistola d’ordinanza, le aveva sparato tre colpi, ferendola gravemente. Impossessatosi delle chiavi di casa e si era barricato nell’appartamento con le figlie, uccidendole nel sonno. Dopo ore di trattative con le forze dell’ordine si era ucciso con la sua stessa pistola. Antonietta, che aveva segnalato le violenze dell’uomo, non lo aveva denunciato perché il marito era carabiniere e temeva di aggravare la situazione.

Dopo la strage familiare, col passare delle ore era emersa anche una tragica coincidenza: proprio il giorno del duplice omicidio-suicidio, nell’alloggio del carabiniere si era presentato un ufficiale giudiziario per notificargli l’atto di separazione della moglie. Ma non lo aveva trovato: lui era già fuori, pronto a sterminare ciò che rimaneva della sua famiglia. Ora Antonietta continua a vivere, sola, dimostrando una forza unica e una enorme fede. Su Facebook, qualche settimana dopo l’agguato dell’ex marito, aveva scritto: «Oggi voglio ringraziare ognuno di voi per le preghiere e per l’amore, la mia vita qui è un miracolo e ringrazio Dio ogni istante! Il vero miracolo ancora è l’amore che ha circondato me e soprattutto le mie bambine. Il vero miracolo è che l’odio, il male, il rancore non hanno vinto nei nostri cuori».

Pamela Mastropietro, fatta a pezzi a Macerata

Aveva 18 anni Pamela: il suo corpo è stato ritrovato a pezzi in due valigie, a Macerata. In carcere per il delitto si trova Innocent Oseghale, 29enne nigeriano e spacciatore, che ha confessato l’omicidio della ragazza romana, ma ha negato di averla violentata. La vita della giovane era già segnata dalla tossicodipendenza, motivo per cui si trovava nella comunità di recupero marchigiana. Ma dalla comunità era fuggita. Aveva incontrato Oseghale, che gli aveva venduto l’eroina che le risulterà fatale. Pamela muore di overdose nell’appartamento dello spacciatore. Lui ha raccontato di essersi fatto prendere dal panico e di aver cercato di liberarsi del corpo della 18enne. Lo ha dunque smembrato e nascosto in due trolley, abbandonati nei pressi di un fossato fuori Macerata, dove si era fatto accompagnare in taxi.

Una storia terribile, che però, secondo le rivelazioni di un detenuto siciliano in cella nello stesso carcere di Oseghale, potrebbe essere ancora più drammatica: Pamela avrebbe avrebbe avuto un rapporto sessuale dopo aver assunto eroina, quando era in stato di semincoscienza. Avrebbe anche tentato di opporsi, cercando di fuggire  dall’appartamento del nigeriano, ma sarebbe stata raggiunta da una prima coltellata. Poi ne sarebbe arrivata una seconda. Lo spacciatore avrebbe continuato a infierire fino a farla a pezzi. La testimonianza del detenuto, con il quale Oseghale si sarebbe confidato, avrebbe trovato riscontri, soprattutto su dettagli anatomici della ragazza, confermati dai familiari. Non reggerebbe dunque la versione data da Oseghale agli inquirenti, secondo cui la ragazza sarebbe morta di overdose in casa, dove si trovavano altri due uomini, mentre lui era uscito a fare altre consegne.

Sara di Pietrantonio, uccisa e bruciata dal fidanzato alla Magliana

«Sto tornando a casa». Sono state queste le ultime parole di Sara di Pietrantonio, la studentessa 22enne che la notte del 29 maggio 2016 è stata prima strangolata, poi cosparsa di alcol e bruciata dall’ex fidanzato Vincenzo Paduano, alla Magliana, periferia di Roma. Paduano, all’epoca 28enne, dopo aver inizialmente negato ha confessato il delitto, spiegando di aver agito per gelosia. Non accettava la fine della relazione con Sara, avvenuta appena pochi giorni prima dell’omicidio e dopo due anni di relazione tra alti e bassi: «Mi vergogno profondamente di quello che ho fatto – ha ammesso – Mi sento un mostro».

La ex guardia giurata quella notte aveva atteso che la ragazza tornasse a casa, in macchina. L’aveva speronata, costringendola a scendere e, una volta bloccata, è scoppiata una violenta lite. L’uomo l’ha quindi cosparsa di liquido infiammabile, mentre lei tentava la fuga. L’ha raggiunta, strangolata e, una volta uccisa, ha dato fuoco al suo corpo. Paduano è stato condannato in primo grado all’ergastolo, ritenuto riconosciuto colpevole di omicidio e distruzione di cadavere. I giudici dell’Appello ha ridotto la pena a 30 anni, confermando le aggravanti dei futili motivi e della minorata difesa. La mamma di Sara, Concetta Raccuia, ha commentato la sentenza: «Va bene così. Sono tanti 30 anni per un ragazzo così giovane. Poi c’è ancora la Cassazione».

Elena Ceste e Roberta Perosino, due destini incrociati

È la mattina del 24 gennaio 2014 quando Elena Ceste scompare da casa a Costigliole D’Asti, in Piemonte. Quel giorno Elena aveva chiesto al marito, Michele Buoninconti, vigile del fuoco presso la caserma di Alba, di portare i bambini a scuola perché non si sente bene. L’uomo rientra a casa alle 8.15 del mattino, ma della moglie non c’è più traccia. Secondo il racconto dell’uomo, Elena si sarebbe allontanata verso la campagna, ina mattina d’inverno, abbandonando gli abiti e gli occhiali. Una versione che convince poco gli inquirenti. Il corpo della donna 37enne viene ritrovato soltanto il 18 ottobre dello stesso anno nel canale del Rio Mersa, a meno di un chilometro dall’abitazione della vittima. L’esame sul corpo, in avanzato stato di decomposizione, rivela che la causa della morte non è l’annegamento, anche perché in quel punto l’acqua è molto bassa.

Si scoprirà poi che ad ucciderla, strangolandola, era stato il marito. Buoninconti è poi stato condannato all’ergastolo a 30 anni, con pena confermata nei tre gradi di giudizio. Lo stesso tragico destino è capitato, però, anche alla cugina della Ceste, Roberta Perosino, 54 anni, che abitava a poca distanza da Elena. La donna è stata trovata senza vita sul pavimento di casa la mattina del 26 giugno del 2018. A fare la scoperta del cadavere è stato il marito, che ha dato l’allarme, supponendo che la moglie, dipendente di uno stabilimento dolciario di Alba, si fosse sentita male. La verità emergerà in breve tempo: a ucciderla è stato proprio il consorte, Arturo Moramarco, che l’ha soffocata con un cuscino, inscenando poi una rapina.

Lucia Annibali e Gessica Notaro, sfregiate con l’acido

Lucia Annibali è una donna avvocato, sfregiata con l’acido dall’ex fidanzato, Luca Varani, la sera del 19 aprile del 2013. All’epoca ha 36 anni, vive a Pesaro e da tempo è vittima dell’ex che si è trasformato in uno stalker dopo la fine della loro relazione. La Annibali, infatti, scopre che Varani è fidanzato da 10 anni con un’altra donna; decide di affrontarla e lascia Varani. L’uomo si vendica assoldando l’albanese Altistin Prevcetaj perché compia un agguato con l’acido in casa della Annibali. È solo l’ultimo atto di un crescendo di episodi che vanno dalla manomissione del gas in casa della donna, a pedinamenti a telefonate e messaggi minatori. In un caso le aveva anche sottratto, con un inganno, le chiavi dell’appartamento. Il gesto più grave è stata però l’aggressione da parte dell’uomo, ingaggiato da Varani, che a volto coperto e insieme a un complice l’ha attesa nel suo appartamento e le ha gettato in viso acido solforico al 66%, sfregiandola. Lucia Annibali si è salvata, ma si è anche dovuta sottoporre a ben 17 interventi, anche per evitare la perdita della vista e complicazioni respiratorie. Il mandante è oggi in carcere dove sconta una pena a 20 anni per stalking e tentato omicidio. La Annibali è testimonial della lotta contro la violenza sulle donne.

Un caso analogo ha avuto come vittima anche Gessica Notaro, 28 anni, aggredita sotto casa sempre con l’acido dall’ex, Jorge Edson Tavares, originario di Capoverde. Il 10 gennaio del 2017 Gessica sta rincasando a Rimini, dove lavora all’acquario come addestratrice di foche. Viene aggredita dall’ex fidanzato che le getta sul volto dell’acido, in preda alla gelosia: la sostanza le causa gravi ustioni nella zona degli occhi, ma anche all’anca e a una gamba. La ragazza, in seguito, ha raccontato quei momenti così: «Mi aveva minacciato quando lo avevo denunciato, un anno prima, e diceva spesso che si sarebbe tolto la vita dopo avermela fatta pagare. La sera del 10 gennaio immaginavo di ritrovarmelo sotto casa perché aveva telefonato più volte a mia madre. Nonostante gli obblighi domiciliari ai quali era stato sottoposto, infatti, Edson Tavares era libero di andare in giro a tutte le ore e di avvicinarsi a casa mia». Tavares, subito arrestato, è stato condannato a 15 anni in Appello, dopo che in primo grado erano stati decisi 10 anni e un risarcimento di 230 mila euro.

Roberta Ragusa, scomparsa in Toscana

Roberta Ragusa scompare in una notte di gennaio del 2012 a San Giuliano di Pisa, dopo una lite col marito, Antonio Logli, di cui aveva scoperto una relazione con Sara Calzolaio, dipendente dell’autoscuola di famiglia ed ex baby sitter dei due figli, che collaborava anche nell’autoscuola della Ragusa. Testimoni oculari, tra i quali Loris Ghezzi, vedono l’uomo farla salire in auto trascindandola, mentre lei chieda aiuto. I fari sono spenti, c’è buio, Logli viene visto pulire due grosse macchie sull’asfalto. Da quella notte di Roberta non è mai più stata trovata una sola traccia: si sospetta che il suo corpo sia stato gettato nel vicino lago paludoso di Massaciuccoli. Nonostante alcune ricerche, però, non sono mai stati trovati indizi.

Il marito si è sempre detto innocente, sostenendo in un primo tempo che Roberta si fosse allontana volontariamente da casa. In primo grado è stato assolto con una sentenza ribaltata però in Appello dai giudici secondo i quali Logli avrebbe temuto “contraccolpi economici” dalla loro separazione. I genitori di Logli, infatti, in alcune intercettazioni sospettano del figlio, che viene condannato a 20 anni, ma non va in carcere: perde la patria potestà e ha l’obbligo di firma nel comune di residenza. Le ricerche di Roberta si sono ufficialmente interrotte, ma i familiari continuano a chiedere di poter verificare in alcuni luoghi, nella speranza di poter trovare almeno il corpo della donna. Il figlio Daniele, oggi 21enne, è stato ascoltato più volte dai giudici e ha sempre difeso il padre, così coma di recente ha fatto la sorella 17enne. La cugina, Marica Napolitano, invece, chiede invece di riavviare le ricerche della donna.

Yara Gambirasio, uccisa fuori dalla palestra

La Cassazione ha confermato, il 12 ottobre scorso, la condanna definitiva all’ergastolo di Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio, la 13enne prima scomparsa, poi ritrovata senza vita nei campi vicino a Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo. La ragazzina era uscita da casa il 26 novembre del 2010 per raggiungere la palestra distante appena 700 metri. Lì si allenava come ginnasta: quel percorso lo aveva fatto altre volte. Quella sera, però, in palestra non arriva e di lei si perde ogni traccia, fino al ritrovamento del corpo. Gli esami sul cadavere provano che a ucciderla sono state alcune coltellate e il freddo. Gli investigatori isolano una traccia di DNA maschile sui leggings e gli slip della ragazzina, che diventerà la prova (contestatissima) che porta alla condanna di Bossetti, muratore di Mapello all’epoca 43enne.

L’uomo, sposato e padre di tre figli, si è sempre dichiarato innocente. Alla sua condanna si arriva dopo un iter giudiziario tortuoso. Il DNA rinvenuto dagli inquirenti, infatti, risulta compatibile a quello trovato mesi dopo su una marca da bollo di un uomo deceduto nel 1999, Giuseppe Guerinoni, un autista della zona che viene ritenuto il padre del ricercato per l’omicidio di Yara. Dopo qualche tempo si scoprirà che Guerinoni era il padre naturale di Bossetti, della cui esistenza lo stesso muratore era all’oscuro. Il figlio illegittimo viene ribattezzato “Ignoto 1” e arrestato, nel giugno del 2014, proprio perché il suo DNA risulta coincidere con quello di “Ignoto 1”.

Sarah Scazzi e il delitto di Avetrana

Sarah ha il viso giovane come la sua età, appena 15 anni: capelli biondi, lineamenti delicati, occhi innocenti. Forse più innocenti della cugina Sabrina Misseri e forse per questo piaceva di più a Ivano Russo. Sarah Scazzi si fidava della cugina, per questo non ha sospettato nulla quando, un pomeriggio del 26 agosto del 2010 è uscita di casa per raggiungere proprio la cugina a poche centinana di metri da casa ad Avetrana, in provincia di Taranto. Pensava di trascorrere un pomeriggio al mare con Sabrina. Invece da quel giorno di lei si sono perse le tracce. Per mesi, fino a quando a ottobre lo zio, Michele Misseri, denuncia il ritrovamento del cellulare della ragazza nelle campagne pugliesi poco distanti. Del corpo, però, nulla.

Il ritrovamento insospettisce gli inquirenti, le pressioni sull’uomo aumentano fino a quando lui confessa di aver ucciso la nipote in preda a un raptus sessuale e permette di ritrovare il  cadavere della ragazzina. Ma neanche questa versione convince del tutto gli investigatori, infatti nove giorni dopo ritratta (le analisi escludono la violenza) e accusa la figlia. Le indagini accerteranno che a uccidere Sarah è stata proprio la cugina Sabrina, gelosa per via di Ivano. Insieme alla madre, Concetta Serrano, compie il delitto, poi le due donne coinvolgono il capo famiglia, facendosi aiutare a nascondere il corpo della 15enne. Entrambe sono state condannate all’ergastolo. Per Michele Misseri, invece, la pena è di 8 anni per la sola accusa di occultamento di cadavere.

Meredith Kercher e il giallo di Perugia

Perugia è una città di arte e cultura, ospita un’università per stranieri piuttosto conosciuta ed è proprio lì che si conoscono Meredith Kercher, 22 anni inglese, e Amanda Knox, 20 anni, americana di Seattle. Le due giovani diventano coinquiline condividendo un appartamento di una villetta a due piani non lontano dall’ateneo, come molti altri studenti fanno in ogni angolo del mondo e dell’Italia. Lì, però, in via della Pergola, la notte di Halloween del 2007 accade un delitto terribile: Meredith, “Metz” per gli amici, viene assassinata. Il corpo viene trovato in un piumone, con la gola tagliata e segni di tentata violenza. I primi sospettati sono la coinquilina, Amanda, e l’allora fidanzato, Raffaele Sollecito, un ragazzo di origini baresi con il quale Amanda esce da qualche tempo. Entrambi sono immortalati, durante i sopralluoghi degli investigatori nell’appartamento, mentre si abbracciano teneramente fuori dalla villetta degli orrori.

Quelle immagini faranno il giro del mondo, anche perché la famiglia di Amanda segue dagli Stati Uniti la vicenda e cercherà di farlo diventare un caso diplomatico, dopo l’arresto della figlia, insieme allo stesso Sollecito. Col tempo emergeranno le responsabilità di Rudy Guede, presente nell’appartamento al momento del delitto e alla fine del caso considerato l’unico responsabile: l’ivoriano è in carcere per scontare 16 anni di carcere per il delitto. Un altro straniero viene coinvolto da Amanda, che fa il nome di Patrick Lumumba, gestore del bar in cui l’americana lavora come cameriera. L’uomo uscirà di scena, mentre Amanda e Raffaele, dopo 4 anni di carcerazione preventiva e diverse sentenze contradditorie tra loro, sono assolti definitivamente in Cassazione. Lo scorso 23 ottobre la Knox, che in America fa la giornalista, è stata intervistata in Norvegia e ha detto: «Ho ancora una relazione complicata con l’Italia, ma tornerò presto».

Simonetta Cesaroni e il giallo di via Poma

Simonetta Cesaroni è una ragazza come tante altre: non è appariscente, ha una lavoro comune come segretaria in un ufficio a Roma, una vita tranquilla tra colpi di testa, trascorsa tra le pratiche alla scrivania e casa. Qualche amica, nessuna storia complicata. Eppure viene trovata morta il 7 agosto del 1990 proprio nell’ufficio di via Poma, nel quartiere dei Prati nella Capitale dove si era fermata per finire il lavoro, da sola. Quello di Simonetta resta uno dei gialli italiani più famosi, un delitto irrisolto e forse il primo caso che ha visto un fortissimo interessamento da parte della stampa e della tv. Il suo corpo venne ritrovato nudo, con 29 colpi di arma da taglio profondi 11 centimetri, che raggiungono il cuore, la giugulare e la carotide. Ha anche ecchimosi al viso provocate da pugni e grossi lividi causati dal suo assassino, che avrebbe infierito in modo brutale. Ma il suo nome è ancora sconosciuto.

A dare l’allarme era stata la sorella Paola che, non vedendo rincasare Simonetta, aveva avvertito l’allora fidanzato di Simonetta e il titolare dell’ufficio. Negli anni si è sospettato proprio dell’allora ragazzo della vittima, Raniero Busco, che però aveva un alibi, e che nel 2014 è stato assolto in via definitiva. Altri due uomini sono stati sospettati, ma neppure incriminati: il primo è Pietrino Vanacore, il portiere dello stabile, che subì una carcerazione preventiva, ma risultò estraneo ai fatti; il secondo, invece, è Federico Valle, nipote dell’architetto che abitava nelo stesso stabile dell’ufficio di Simonetta. Anche in questo caso non si arriva ad alcun processo. Una svolta sembra vicina quando, nel 2007, il Ris di Parma trova tracce del DNA di Busco sul corpetto della vittima, insieme a un morso al seno sinistro della vittima, che sarebbe compatibile con l’arcata dentale dell’uomo. Busco, nel frattempo sposatosi e diventato padre, viene condannato in primo grado a 24 anni, ma assolto in appello e in via definitiva in Cassazione nel 2014.

Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, le ragazze del Circeo

Un delitto atroce e violentissimo, commesso da tre uomini che si accanirono su due ragazze in una villa di San Felice del Circeo, sul litorale pontino. Era la notte tra il 29 e il 30 settembre del 1975 quando Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira, all’epoca vent’enni, attirarono in una villa dei familiari di Ghira le amiche Donatella Colasanti (17 anni) e Rosaria Lopez (19), col pretesto di una festa. Le avevano conosciute per caso, tramite un amico comune delle giovani, che però non fu presente quella sera e risultò del tutto estraneo ai fatti. I tre drogarono Donatelle e Rosaria, le violentarono e seviziarono per oltre un giorno e una notte, causando anche la morte della Lopez, annegata in una vasca da bagno. La Colasanti si salvò solo per miracolo e grazie al suo estremo coraggio: si finse morta e, quando venne caricata insieme al corpo esanime dell’amica nel bagagliaio di un’auto, usata dagli aguzzini, rimase in silenzio, al buio, sanguinante, esamine, con il corpo dell’amica morta sul suo.

I tre aguzzini, che volevano sbarazzarsi dei corpi, commisero l’errore di fermarsi a cenare in un locale, come nulla fosse, lasciando l’auto con le donne all’interno del bagagliaio. Fu allora che Donatella iniziò a urlare, riuscendo ad attirare l’attenzione di un metronotte di passaggio. L’uomo a sua volta chiamò rinforzi e la salvò. La giovane, però, non riuscì mai più a riprendersi dallo shock di quelle violenze. È morta nel 2005 dopo una brutta malattia. Quanto ai tre violentatori e assassini, Ghira fuggì in Spagna dove poi morì di overdose. Guido e Izzo vennero condannati. Nel dicembre del 2004, mentre si trovava in regime di semilibertà dal carcere di Campobasso, Izzo uccise altre due donne, Maria Carmela e Valentina Maiorano, rispettivamente moglie e figlia di Giovanni Maiorano, pentito della Sacra Corona Unita che Izzo aveva conosciuto in carcere. Guido, invece, ha terminato la sua detenzione nel 2009 grazie all’indulto.

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