Studenti all'università

Mio figlio non va all’università. Perché?

  • 20 07 2016

Le domande che le famiglie dei ragazzi appena diplomati alle superiori si stanno facendo sono: iscriviamo nostro figlio all’università? A quale facoltà? Riusciremo a mantenerlo agli studi? E, soprattutto, ne vale la pena?

L’anno scorso le matricole sono state 272.000, poche in più rispetto al 2014. «Ma questo lieve aumento non modifica uno scenario di crisi generale dei nostri atenei, che dura da circa 10 anni» ammette Ivano Dionigi, ex rettore a Bologna, presidente di AlmaLaurea, il consorzio interuniversitario che monitora l’inserimento dei laureati nel mondo del lavoro. Nel 2004 i nuovi iscritti erano 326.000. Ne abbiamo persi oltre il 20%. Colpa dei costi elevati e della sfiducia verso un percorso che non dà più certezze. E così, mentre gli altri Paesi spingono sulla formazione per affrontare la crisi, oggi siamo gli ultimi in Europa per numero di laurea-ti tra i 25 e i 34 anni. Ci ha superato anche la Turchia. Che cosa succede?

Conviene cercare fonti di sostegno alternative 

Le borse di studio sono state tagliate. L’università è cara, ma i fondi pubblici a disposizione diminuiscono. Secondo un rapporto di Federconsumatori, tra tasse, trasporti e libri, un universitario che vive ancora con i genitori costa 1.400-1.800 euro l’anno. E mantenere un “fuori sede” è davvero un lusso: ci vogliono 7-8.000 euro. Di contro, il Fondo di finanziamento statale delle università è passato dagli 8 miliardi del 2010 ai 7 di oggi. Le borse di studio non bastano mai, perché le Regioni non hanno denaro sufficiente. Al Centro-Nord le riceve il 90% dei potenziali beneficiari, ma al Sud si scende al 60% e nelle isole si sprofonda sotto il 40%. «La mancanza di investimenti pubblici lede il diritto allo studio, che sarebbe sancito dalla Costituzione, e abbassa l’offerta formativa, visto che in 10 anni, oltre agli studenti, abbiamo perso anche 11.000 insegnanti. Va bene mandare in pensione i più anziani, ma devono essere sostituti con docenti giovani e preparati» dice Raffaella Rumiati, vice presidente dell’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca).

Diverse borse di studio, per i ragazzi più meritevoli o con redditi bassi, sono erogate da fondazioni private (bisogna chiedere al proprio ateneo quali sono le convenzioni attive). Alcune banche offrono prestiti a tassi agevolati per pagare gli studi (tra gli ultimi accordi, quello tra l’università di Padova e Banca Intesa Sanpaolo). Ci sono poi le scuole di eccellenza, come la Normale e la Sant’Anna di Pisa o lo Iuss di Pavia. Si entra solo in base al merito dopo selezioni dure. Ma coprono al 100% vitto e alloggio in collegio. Vale la pena di tentare.

I licei non si coordinano con gli atenei. L’orientamento che si fa alle superiori spesso non funziona. «Questo genera confusione» denuncia Andrea Lenzi, presidente del Cun (Consiglio universitario nazionale). «Prendiamo l’esempio di Medicina, che è a numero chiuso. I posti disponibili sono all’incirca 10.000, ma tutti gli anni si presentano ai quiz  60-70.000 ragazzi. Metà di loro è lì tanto per provare e finirà per iscriversi a percorsi che poco hanno a che fare con la salute. Sintomo di un sistema che non va». Nella scuola secondaria, in realtà, alcune ore vengono dedicate all’orientamento. E ci sono progetti virtuosi come il Piano lauree scientifiche del Miur, che regala una sorta di stage universitario di qualche giorno, in estate, a decine di studenti di quinta superiore (www.progettolau reescientifiche.eu). «Ma la gran parte delle iniziative si svolge senza coordinamento con gli atenei: così non dà frutti» dice Lenzi.

Seguire gli open day

 «La mossa migliore è seguire gli open day proposti dalle varie facoltà, validi ma poco pubblicizzati» dice Lenzi. E ricordare che tante università, da Milano a Padova, da Pavia a Genova, permettono di avere colloqui singoli di orientamento, compilando una domanda sul loro sito.

I corsi brevi non preparano al lavoro. Secondo Eurostat, solo il 52,9% dei laureati italiani, a 3 anni dal titolo, ha un impiego stabile. Segno della scarsa rispondenza tra preparazione universitaria e richieste del mercato. «Nel sistema basato sul 3+2, il triennio doveva servire a trovare sbocchi a molti giovani. Ma questo, con l’eccezione delle professioni sanitarie, non accade quasi mai. I corsi andrebbero riformati per rispondere alle esigenze delle aziende e del patrimonio storico e artistico italiano, la cui gestione necessita di figure adeguate» spiega Ivano Dionigi, presidente di Almalaurea. «E serve un salto culturale negli imprenditori, spesso più preoccupati di trovare uno spazio a figli o conoscenti che di investire su giovani preparati».

Se si è indecisi, aspettare

«Occorre pragmatismo nella scelta: rispettare le proprie passioni, ma con un occhio al mercato. Non bisogna fare tutti gli ingegneri, ma anche chi sceglie Lettere deve capire quali spazi ci sono nelle imprese per le figure umanistiche» suggerisce Ivano Dionigi. «Poi, nell’incertezza, aspettare. Piuttosto che iscriversi a caso, meglio spendere un anno di stage in azienda o per studiare una lingua. Pare un anno perso, in realtà ne fa guadagnare 10 a livello di esperienza».

QUALI FACOLTA’ SCELGONO I NEODIPLOMATI

Ingegneria (14,6% sul totale), Economia e statistica (13,7%), Scienze politiche (9,7%) sono le facoltà che attirano maggiormente i nuovi iscritti. Le donne sono più numerose degli uomini: arrivano al 78,5% nell’area umanistica, al 68,4% in quella sanitaria, al 56,9% in quella sociale. Fa eccezione l’area scientifica, dove sono solo il 37,6%. 

CHI AIUTA LE FAMIGLIE CON REDDITI BASSI

Quanto vengono finanziate dai vari Paesi le borse di studio per i ragazzi con buoni risultati ma con famiglie dal basso reddito? La Francia e la Germania spendono 2 miliardi di eurO a testa, la Spagna 1, l’Italia solo mezzo miliardo.

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