Ha compiuto 18 anni l’8 marzo, mio figlio. A gennaio, mentre seguiamo le news da Wuhan, inquietanti ma lontane, prenotiamo un locale per il 7 marzo; lo immagino già a mezzanotte, lui con la prima giacca elegante, gli amici dal nido al liceo, i compagni del calcio. Poi scopriamo di vivere a poche decine di chilometri da Codogno. Arrivano le prime restrizioni, in lui la rabbia si impasta con la tristezza quando dobbiamo posticipare al 28 marzo.

Siamo a giovedì 5 marzo. «Forse faccio solo una pizza in centro con qualche amico». L’idea resta sospesa nei dialoghi di famiglia. Siamo al pranzo di sabato 7 marzo. «Invito pochi stasera qua a casa». Recupero una torta. Verso le 21 arrivano alcuni ragazzi. Mi sintonizzo sulle loro risate in sottofondo e intanto smanetto sul cellulare tra le news.

A mezzanotte, mentre per un soffio non entra già in Gazzetta ufficiale il decreto che ci chiude nella zona arancione, si stappa lo spumante: sono mamma di un maggiorenne.

Lunedì 9 sento la proprietaria del locale: si sposta ancora la data, a maggio. Questa festa che continua a sfuggirci l’acchiapperemo, chissà quando, insieme a una nuova normalità. Due giorni fa mio figlio mi dice: «Sai, i soldi nella cassa comune con gli amici per le nostre attività calcistiche? Li versiamo all’ospedale San Matteo di Pavia». A decretarti grande non è una data: può essere il senso di un dono.

#lenostrevitesospese