Da un certo punto in poi della mia vita professionale, mi sono ritrovata a parlare, a ispirare, addirittura a insegnare come fare il capo. È successo involontariamente. Alcune riflessioni affidate al web sui miei errori e su come li avevo corretti, ed eccomi trasformata nella testimonial perfetta della nuova leadership dentro aziende di ogni tipo e davanti ai pubblici più disparati. Al principio, come sempre, la circostanza mi ha lusingata e per qualche tempo pure annebbiata. Impedendomi di vedere che la mia vita quotidiana non era mai all’altezza di ciò che raccontavo. Quando mi è stato chiaro che continuavo a fare errori e che il benessere del team non è mai qualcosa di puntellato in partenza da buone pratiche e sani principi, ma un equilibrio che si ricostruisce ogni mattina e che si alimenta costantemente, mi sono sentita più che mai un’impostora su quei palchi. Che però non ho mai smesso di frequentare, a capo chino e con sempre minore convinzione.

Da qualche settimana è uscito un libro sui pessimi capi la cui lettura – temutissima – mi ha sorprendentemente riconciliato con quel costante senso di inadeguatezza che mi attanaglia. E non solo perché l’autrice, Domitilla Ferrari, chiarisce che i cattivi esempi sono più utili dei buoni ai fini dell’apprendimento (amara consolazione!). Ma perché, catapultata dalla lettura nel caleidoscopico universo dei leader fallimentari, ho capito che è praticamente impossibile non esserlo stato almeno per un giorno. E probabilmente non smetteremo mai di avere momenti da pessimo capo da qui all’eternità. Ma possiamo sicuramente tenerci alla larga dalla caratteristica strutturale e universale del pessimo capo, ovvero colui che «non impara, non cambia, non innova, ma trama per far restare tutto com’è. Anche se stesso».

Continueremo a seminare errori, è inevitabile. L’importante è che ciò avvenga lungo il cammino, nel tentativo di cambiare e di essere all’altezza di questi tempi incerti. Si sbaglia, ci si corregge, si prende una nuova strada. Come in tutto, nella vita.

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