Emma Lawton ha 35 anni e fa parte di quel 3-4% di persone che soffrono di Parkinson giovanile, forma

Emma Lawton ha 35 anni e fa parte di quel 3-4% di persone che soffrono di Parkinson giovanile, forma rara che insorge prima dei 40 anni. Foto di Paul Meyler

Parkinson: nuove cure e terapie

Oggi questa malattia neurologica viene scoperta precocemente. E i farmaci possono tenere sotto controllo i sintomi per anni

Stefano ha 56 anni, pratica triathlon, si allena costantemente e ha persino un suo blog. Cosa c’è di particolare? Stefano ha il Parkinson, la malattia neurologica che, secondo la convinzione comune, impedisce di condurre un’esistenza normale. Lui trasmette una tale energia da avere spinto altri malati a fare sport quasi a livello agonistico.

Queste persone sono la dimostrazione dei progressi della ricerca: oggi è possibile diagnosticare il Parkinson precocemente, inziare presto le cure e ricorrere a un ventaglio di terapie più ampio e mirato. A differenza di un tempo, insomma, adesso si può convivere meglio e più a lungo con la malattia. Come ci racconta in questa intervista Leonardo Lopiano, direttore della Clinica neurologica della Citta della Salute e della Scienza dell’Ospedale Molinette di Torino e presidente dell’Accademia Limpe-Dismov, l’associazione che riunisce i neurologi italiani esperti di Parkinson.

Si può guarire dal Parkinson?

«Non ancora, ma il futuro non è così lontano. Oggi sappiamo che cosa succede esattamente in chi si ammala. Alcune cellule neuronali che producono dopamina, una sostanza presente nel cervello, vanno incontro a degenerazione. E uno dei meccanismi principali di questo processo sembra essere l’accumulo di una proteina chiamata alfa-sinucleina. Da questa scoperta sono partite le ricerche in corso, ricerche che probabilmente porteranno a terapie neuroprotettive mirate, cioè capaci di difendere le cellule del cervello. Questo non significa che oggi non ci siano soluzioni farmacologiche, anzi. I medicinali agiscono sul deficit di dopamina e si chiamano levodopa, dopaminoagonisti e inibitori enzimatici. Sono in grado di tenere sotto controllo per anni i sintomi tipici della malattia e in particolare la lentezza del movimento, la rigidità muscolare e il tremore».

Ma il dolore come si affronta?

«È un sintomo che merita un’attenzione particolare e che purtroppo viene ancora sottovalutato. Questo concetto è stato sottolineato da molti studi, che hanno definito anche alcuni aspetti importanti da tenere presente nel trattamento. Talvolta per stare meglio è sufficiente adeguare il dosaggio dei farmaci dopaminergici, altre invece serve la fisioterapia, possibilmente in acqua, in modo da migliorare la rigidità muscolare, a tutto vantaggio del dolore. Quando i disturbi sono particolarmente intensi si ricorre alla terapia antalgica. E ci sono soluzioni anche per i sintomi che compaiono nelle fasi più avanzate della malattia: le cosiddette fluttuazioni motorie. Si può intervenire, per esempio, con infusioni continue sottocutanee di apomorfina».

Torniamo ai pregiudizi sulla malattia: quindi non è vero che quando inizia la malattia non c’è più nulla da fare?

«Al contrario. Gli studi hanno dimostrato che molto si gioca proprio nei primi anni dalla diagnosi. Con il Parkinson si altera la capacità di compiere i movimenti automatici, quelli che facciamo senza pensare, come camminare. Tanto che il passo finisce per prendere quell’andatura tipica lenta, a piccoli passi. Qui la tecnologia è una grande alleata. Oggi per aiutare la persona a coordinare i movimenti in modo cosciente, vengono utilizzate varie metodiche, come la Wii balance board, una pedana interattiva collegata a una console per allenarsi davanti alla tv. Il paziente deve svolgere attività fisica in modo regolare, almeno 30 minuti al giorno per cinque giorni alla settimana. L’esercizio infatti si sta trasformando in una vera e propria terapia che permette ai farmaci di allungare i tempi della cosiddetta “luna di miele”, cioè il periodo in cui i sintomi vengono tenuti sotto controllo dalla terapia».

Esistono modi per allenare anche la mente?

«Ce ne sono tanti. Oggi diverse ricerche stanno confermando la validità della realtà virtuale. Si è visto che la possibilità di interagire come se si fosse dentro a un videogioco o in una realtà aumentata, stimola le risorse cognitive, con effetti importanti. In questo modo aumenta la motivazione del paziente, che affronta la vita con più energia e ottimismo. Non dimentichiamo che da una ricerca condotta dall’Istituto Eikon Strategic Consulting su web, forum e social è emerso che una persona su quattro si vergogna della malattia e tende a isolarsi. Con il rischio di entrare in un circolo vizioso che peggiora i disturbi, soprattutto quelli cognitivi».

I numeri

250.000 italiani soffrono di Parkinson 10-15% è la quota di chi si ammala prima dei 50 anni 3-4% dei casi riguarda le forme giovanili che compaiono prima dei 40 anni

La storia di una giovane malata

Emma Lawton (nelle foto sopra) ha 35 anni e fa parte di quel 3-4% di persone che soffrono di Parkinson giovanile, forma rara che insorge prima dei 40 anni. «La diagnosi è arrivata a 29 anni ed è stato un enorme choc» racconta Emma. «Era tanto che non stavo bene: ero depressa, non avevo la solita lucidità, facevo fatica a prendere decisioni. Poi, la rigidità al braccio destro, la strana posizione della mano mentre afferravo il mouse».

Fortunatamente rispetto a quella che colpisce gli over 50, la forma giovanile avanza molto lentamente. Emma infatti continua a lavorare e non nasconde la sua malattia. Anzi. «Ho creato un canale Youtube che mi permette di parlare della malattia, ho una pagina facebook, twitter, Instagram».

Non solo. Emma ha anche ispirato il nome di un dispositivo ideato da Microsoft: Emma Watch. Testato personalmente dalla Lawton, sfrutta un meccanismo a vibrazione simile a quello degli smartphone che è in grado di “distrarre” il cervello di una persona affetta da Parkinson al fine di contrastare i tremori e stabilizzare le mani.

Riproduzione riservata