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Farmaci per la transizione di genere: sì o no?

Nel Regno Unito sono stati bloccati i farmaci per la transizione di genere, in Olanda e Finlandia si sta facendo marcia indietro, negli Usa ci si muove in modo molto differenziato. E in Italia?

I farmaci per gli adolescenti che vogliono effettuare il cambio di genere potrebbero non essere sicuri, almeno nel Regno Unito, dove il servizio sanitario nazionale li ha vietati. Messi a punto per bloccare la pubertà e dunque tutti i cambiamenti fisici ad essa collegati, come la crescita del seno nelle ragazze o della barba nei ragazzi, non sarebbero neppure efficaci. Finora erano previsti nei casi di bambini e giovani che non si riconoscono nel genere con cui sono nati.

Cosa sono i farmaci bloccanti della pubertà

Si tratta di prodotti a base di triptorelina, usata per curare il tumore alla prostata, ma impiegata off label (cioè con un impiego differente rispetto a quello per cui è stata autorizzata ufficialmente) anche per i casi di disforia di genere. «Si tratta di farmaci impiegati anche nei tumori alla mammella che rispondano alla terapia ormonale. Nei casi di disforia di genere bloccano lo sviluppo generale e sono prescritti dagli specialisti, soprattutto presso centri specializzati presenti da diversi anni anche in Italia. Sono farmaci a carico del servizio sanitario nazionale, ma la terapia andrebbe somministrata dopo un lungo percorso psicoterapeutico in cui sia indagata la personalità del bambino o preadolescente, insieme alle sue caratteristiche psico-fisiche», spiega Adelia Lucattini, psichiatra e psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana, esperta di adolescenti e giovani.

Perché il Regno Unito ha vietato i farmaci bloccanti

La direttiva inglese è arrivata alla luce di uno studio, commissionato dal servizio sanitario nazionale inglese (NHS), che ha sollevato dubbi sia sulla sicurezza dei trattamenti, sia sulla stessa efficacia clinica. Emerge, infatti, che «non ci sono prove sufficienti», come dichiarato dalla prima firmataria della ricerca, la dottoressa Hilary Cass, una pediatra ed esperta di bambini con disabilità. Nel 2022 è stata incaricata di analizzare l’opportunità della somministrazione dei trattamenti che bloccano la pubertà, erogati in Inghilterra dall’unico centro Gender Identity Development Service-GIDS. Adesso, di fronte alle conclusioni, i farmaci saranno vietati, anche perché non se ne conoscono gli effetti a lungo termine.

Che effetti hanno i farmaci nel lungo periodo?

Il report di Cass, infatti, spiega che «le conseguenze a lungo termine dei bloccanti della pubertà sulla salute non si conoscono». «I primi ad adottare la terapia bloccante della pubertà sono stati gli Stati Uniti, fin dal 2017. Nel frattempo, però, è anche stato condotto uno studio randomizzato su un campione molto ampio, di oltre 121.800 giovani tra i 6 e i 13 anni, sottoposti a queste terapie, che ha portato la Food and Drug Administration a bloccarne la somministrazione. Sono stati riscontrati, infatti, eccessivi fattori di rischio fisico per i bambini rispetto al potenziale beneficio psichico, che era l’obiettivo primario – spiega Lucattini – Tra il 2013 e il 2019 ci sono stati 41mila eventi avversi, oltre 26mila dei quali associati ai farmaci bloccanti, quindi la stessa triptorelina e leuprolide, con 6.300 decessi legati al trattamento».

I rischi fisici nei giovanissimi

I dati della FDA riportano problemi di coagulazione, trombosi, embolie polmonari e altri eventi letali, «oltre a una serie di patologie già note connesse a questi farmaci, come fragilità ossea: sono indicati, per esempio, casi di giovani con osteoporosi a 18 anni e con protesi d’anca a 25, oltre a dolori articolari e malattie metaboliche, come aumento del colesterolo e resistenza insulinica associata al diabete. Per questo in America si è deciso un approccio più prudente: il farmaco non è del tutto sospeso, ma è autorizzato solo dopo la maggiore età. In generale si ritiene che non si dovrebbe iniziare una transizione di genere almeno fino alla prima adolescenza, cioè dopo il primo scatto puberale. A ciò si aggiungono alcune riflessioni di natura psicologica e psichiatrica», sottolinea Lucattini.

Quando il problema è di tipo psicologico

Un altro aspetto messo in discussione, infatti, riguarda i risvolti psicologici. Secondo Cass nella clinica britannica che si offre il Gender Identity Development Service-GIDS, quindi che si occupa della varianza di genere, non è stata sufficientemente esplorata «la possibile relazione tra la disforia di genere dei pazienti e la neurodiversità o i bisogni psicosociali, inclusi quelli derivanti da traumi infantili o dall’ostilità interiorizzata verso l’attrazione per lo stesso sesso». «È fondamentale, perché oltre allo sviluppo fisico va considerato l’aspetto psicologico», conferma Lucattini.

Lo sviluppo fisico e psicologico

«Nello stesso Regno Unito non è stato bloccato il processo di transizione di genere in chi ne sente il bisogno, ma lo si è normato consentendolo dai 17 anni e dopo un percorso di qualche anno con un’adeguata assistenza psicologica, di osservazione e terapia per capire se c’è realmente un’inversione dell’identità di genere. Questa, infatti, può definirsi nella seconda fase dell’adolescenza, cioè tra i 13 e i 16, per poi proseguire. Nella fase precedente, infatti, avviene in modo molto meno marcato, mentre è con lo scatto puberale, cioè con la crescita degli organi sessuali ma anche con quella mentale, che si può completare l’identità: è un processo ampio, che non si può limitare a estrogeni e testosterone, ma coinvolge altri ormoni e neuromodulatori che favoriscono un processo psicofisico armonico», chiarisce la psichiatra.

Cos’è l’approccio affermativo

Proprio sull’importanza (o meno) del fattore psicologico si registrano le maggiori differenze tra favorevoli e contrari alla somministrazione di farmaci bloccanti, non solo nel Regno Unito. «Nel trattamento della disforia di genere i paesi nord-europei sono stati fra i pionieri dell’approccio cosiddetto “affermativo”, il quale tende a supportare i bambini e i giovani nella scelta del nuovo genere espresso, includendo e incoraggiando la transizione sociale fin da prima della pubertà», spiega l’associazione GenerAzione D, che in Italia raggruppa genitori di giovani che si dichiarano transgender. L’obiettivo dell’approccio affermativo è «rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla piena affermazione e divulgazione della propria identità di genere», a volte senza prevedere il passaggio da una psicoterapia.

Occorre una terapia psicoterapica?

Di recente in Italia si è parlato del caso dell’ospedale Careggi di Firenze e del suo centro sulla disforia di genere, dopo un’interrogazione parlamentare da parte di Maurizio Gasparri alla presidenza del Consiglio e al ministro della Salute. La psicologa Jiska Ristori, che vi lavora con l’endocrinologa Alessandra Fisher, ha dichiarato al Corriere della Sera che «la presa in carico per i percorsi di affermazione di genere non prevede una psicoterapia (…). Esattamente come succede nelle persone cisgender (la cui identità di genere corrisponde al genere e al sesso biologico alla nascita, NdR) alle quali non viene richiesta una psicoterapia per definire la propria identità di genere, questo vale anche per le persone trans». L’Agenzia del farmaco, invece, aveva autorizzato il trattamento sui minori previo percorso multidisciplinare e certificazione di disforia di genere.

Stop al cambio di genere per gli adolescenti inglesi

Intanto la conseguenza di queste valutazioni è la chiusura del GIDS in Inghilterra, sostituito da centri sanitari regionali, prevista già per il 2023 e slittata al 2024. Ma soprattutto stop alla sospensione, da fine marzo, della somministrazione dei farmaci bloccanti ai minori, che saranno offerti solo nell’ambito di studi clinici sperimentali da definire. «Accogliamo con favore questa decisione storica da parte del Servizio Sanitario Nazionale di porre fine alla prescrizione di routine di bloccanti della pubertà e questa guida che riconosce che la cura deve essere basata sull’evidenza, sull’opinione clinica di esperti e nel migliore interesse del bambino», ha commentato la ministra della Salute, Maria Caulfield, che parla di «decisione storica».

I farmaci bloccanti sono sicuri?

Non la pensa così, invece, la comunità lgbtqia+: come spiega una delle associazioni più rappresentative nel Regno Unito, Stonewall Uk, «Tutti i giovani trans meritano di accedere a un’assistenza sanitaria tempestiva e di alta qualità. Per alcuni, una parte importante di queste cure arriva sotto forma di bloccanti della pubertà, un trattamento reversibile che ritarda l’inizio della pubertà, prescritto da esperti endocrinologi, dando all’adolescente più tempo per valutare i passi successivi». Il rischio, al contrario, sarebbe di andare incontro a problemi di salute mentale, che potrebbero arrivare a tendenze suicidarie da parte dei giovani con incongruenza di genere.

Le terapie in Italia

L’eco del caso inglese risolleva il dibattito anche in Italia, dove è possibile ricevere i farmaci bloccanti della pubertà, soprattutto nei casi di giovani che affermano di trovarsi a vivere in un corpo nel quale non si riconoscono. La motivazione principale sono le implicazioni psicologiche come il rischio di sviluppare ansia, stati depressivi o tendenze suicidarie. Per questo i trattamenti medici sono stati autorizzati dal Comitato Nazionale di Bioetica nel 2018. Ma a sollevare dubbi sulla loro opportunità è soprattutto la Società Psicanalitica Italiana, che ne ha più volte chiesto la sospensione. I favorevoli, invece, definiscono questa posizione «ideologica». Invita alla cautela anche la stessa GenerAzione D, la cui co-fondatrice è anche un medico.

Il rischio di suicidio

«In Toscana esiste un protocollo dagli anni ’90, così come ci sono centri specializzati anche in Liguria e in altre regioni, ma tutti prevedono un accurato percorso psicologico. In alcuni casi, infatti, al disagio riguardo l’identità di genere possono unirsi problemi di depressione maggiore o psichiatrici, che magari si vedono poco in adolescenza, ma che possono emergere nel tempo. Emblematici sono stati i casi di pazienti che, dopo una transizione di genere all’estero dove non era stata prevista la prescrizione medica, si erano suicidati. Successivamente, sono stati attivati protocolli molto accurati di assistenza psicologica. Lo screening psicologico, dunque, è fondamentale – insiste Lucattini – perché il cambio di identità è un percorso doloroso e impegnativo».

Attenzione anche allo sviluppo mentale

«La disforia di genere, quindi, va presa in seria considerazione e fin dall’infanzia, ma riguardo alla somministrazione precoce di farmaci sarei prudente. I dati scientifici parlano chiaro sulle implicazioni, non solo fisiche. Si tratta di una materia dalle implicazioni scientifiche, ma anche etiche e deontologiche. Credo che non bisognerebbe mai indirizzare l’identità di genere, ma andrebbe seguito lo sviluppo del bambino, individuando eventuali patologie associate», aggiunge Lucattini, affrontando il tema dell’approccio affermativo al genere, di cui si dibatte anche all’estero, nei Paesi considerati in passato più all’avanguardia in questi trattamenti.

Che fine ha fatto il “protocollo olandese”?

È il caso dell’Olanda da cui deriva il cosiddetto “protocollo olandese”. Da qualche tempo, però, se ne è messa in discussione la validità, soprattutto dopo la pubblicazione di un reportage del 2022 del giornalista Jan Kuitenbrouwer e del sociologo Peter Vasterman, pubblicato sul NRC Handelsblad, uno dei maggiori quotidiani olandesi. Si legge che l’approccio terapeutico farmacologico si baserebbe su un unico studio del 2006, che introduce il concetto del “cambio di sesso per bambini transgender” e che sarebbe stato finanziato da Ferring Pharmaceuticals, un’azienda che commercializza la triptorelina, il farmaco bloccante dello sviluppo di bambine e bambini. Per questo gli autori auspicavano un ripensamento su questi trattamenti, come accaduto ora in Inghilterra e prima ancora in Finlandia, per tornare a un approccio psicoterapeutico.

La Finlandia e la parziale marcia indietro

Un altro caso emblematico è rappresentato dalla Finlandia, il primo paese a mettere in discussione l’efficacia del modello affermativo e del ricorso ai farmaci bloccanti della pubertà. Nel 2020 il Council for Choices in Health Care in Finland, massima autorità sanitaria finlandese ha emanato alcune raccomandazioni, prendendo atto che «il trattamento della disforia di genere è aumentato» e sottolineando il ricorso sempre più frequente alla medicalizzazione precoce dei giovani disforici. Nel documento si afferma che «non tutti i pazienti con varietà di genere sperimentano sofferenze significative o menomazioni funzionali e non tutti cercano cure mediche».

L’America e l’approccio differenziato

Infine negli Usa, dove comunque l’FDA ha imposto alcuni limiti, la situazione è molto differenziata. Come ricorda la stessa GenerAzione D sul proprio sito, uno studio del Williams Institute della UCLA School of Law riportava che «il numero di americani che si dichiaravano transgender o non binari ammontava a 2,8 milioni di persone» nel biennio 2016-2017, mentre i dati del Pew Research Center di Washington a giugno 2022 indicano almeno 5,3 milioni di persone. Ma non c’è uniformità di legge: in alcuni Stati è sufficiente presentarsi in una clinica privata per ottenere la prescrizione delle cure ormonali». In alcune aree, invece, ci sono tutele speciali, come il progetto pilota GIFT (Reddito garantito per le persone transgender) lanciato dalla città di San Francisco: «Prevede la corresponsione di 1.200 dollari al mese a chi si dichiari transgender e viva in stato di bisogno. In altri Stati, al contrario, vige il divieto di garantire l’assistenza sanitaria ai giovani transgender, con disposizioni che arrivano a prevedere la revoca delle licenze per i medici che eventualmente la forniscano».

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