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Annalisa Monfreda: così ho salvato il mio matrimonio

La divisione dei compiti casalinghi dà soltanto l’illusione della parità di coppia. Perché il carico mentale continua a pesare sulle donne. Per alleggerirci, e costruire un vero equilibrio, occorre una «piccola rivoluzione domestica»: quella che Annalisa Monfreda, ex direttrice di Donna Moderna e ora fondatrice della piattaforma di cultura finanziaria Rame, esplora nel suo nuovo libro. E qui ci racconta, in prima persona.

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Questa è la storia di come un libro ha salvato il matrimonio di Annalisa Monfreda.

Come è nata l’idea dell’ultimo libro di Annalisa Monfreda

Inizia durante la prima ondata di Coronavirus, quando la mia coppia, come milioni di altre coppie nel mondo, si è avviluppata dentro liti diurne e singhiozzi notturni, rabbie improvvise e silenzi raggelanti. La causa era impronunciabile per me, che dal 2013 sulle pagine di questo giornale parlavo di diritti femminili e parità. Eppure proprio io stavo soccombendo alla più ovvia delle disparità, quella che si consuma tra le mura domestiche. Mentre lui ricreava le condizioni dell’ufficio in un angolo di casa, chiudendosi dietro una porta che nell’immaginario familiare è divenuta il confine invalicabile del regno della concentrazione, io restavo in balia della soddisfazione dei bisogni materiali, delle continue richieste di aiuto.

La parità è un’illusione

Osservavo la vita di mio marito e delle mie figlie riassestarsi su un nuovo equilibrio e la mia consumarsi dentro la macchina che rendeva possibile quell’equilibrio. Credevo di aver raggiunto la perfetta parità di coppia perché non provavo nessun risentimento legato alla spartizione dei compiti domestici. Eppure la quarantena forzata, l’autarchia familiare alla quale siamo stati costretti, mi ha permesso di vedere ciò che anni di compromessi avevano oscurato. E cioè che quella che ritenevo parità era solo un’illusione ottica per cui il carico mentale restava a me, mentre quello materiale passava a una terza persona, la tata, la cui improvvisa assenza scoperchiava quella verità.

Che cos’è il carico mentale secondo Annalisa Monfreda

 Non si tratta solo del fare, ma del pensare. «Gli elettrodomestici e la colf eventuale non ci affrancano comunque dal programmare, dal prevedere, dall’organizzare. Possiamo magari decidere di non fare, ma la libertà di non pensarci non l’abbiamo in nessun caso» scriveva nel 1995 Clara Sereni. Il carico mentale è esattamente questo. «È la parte sommersa dell’iceberg delle statistiche» dice la femminista francese Titiou Lecoq. Se oggi sappiamo che mediamente ciascuna donna impiega 5 ore e 9 minuti a mandare avanti la casa e a prendersi cura di figli e anziani, contro le 2 ore e 16 minuti degli uomini, nessuno potrà mai quantificare l’infrastruttura invisibile di questa disuguaglianza che è la banda mentale del cervello femminile impegnata nell’organizzazione fisica ed emotiva di tutti questi compiti.

Scrivere è la “terapia” migliore per Annalisa Monfreda

Non era la prima volta che succedeva. Crisi come queste avevano scandito i nostri 15 anni di matrimonio. Stavolta, però, dovevo andare a fondo. E, come sempre faccio quando voglio capire qualcosa, mi sono messa a scrivere. È iniziata così l’avventura del libro con il titolo che ho pensato fin dal primo istante: Ho scritto questo libro invece di divorziare. Per un anno, di giorno ho intervistato amiche, scienziate, scrittrici, economiste, mi sono immersa nelle pagine della letteratura e della storia. Poi, di sera, mi sedevo al tavolo della cena e “servivo” conversazioni rivoluzionarie. Sono tante le scoperte che ho fatto durante la scrittura di questo libro. Ve ne racconto due che mi sono venute incontro in uno dei luoghi che amo di più: la letteratura. Ovvero lì dove il carico mentale era già presente prima di essere studiato dai sociologi e inserito nel dizionario dai linguisti.

Perché dobbiamo essere superdonne?

La prima scoperta è che ci vuole tempo e cervello per gestire una casa. Dall’economista Charlotte Perkins Gilman alla scrittrice Paola Masino, il verdetto è unanime: non si può pensare, lavorare, amare se bisogna far funzionare una casa. E invece il mito della superdonna che riesce a farsi strada nel mondo del lavoro, e contemporaneamente a crescere figli e sfornare ciambelloni, ci insegue dagli anni ’80. Io stessa, raccontando storie di donne di successo, ho spesso posto l’accento sulla loro capacità personale, sulla loro eccezionalità invece che sul prerequisito fondamentale: la pari distribuzione di carico mentale.

Restituire valore ai lavori domestici è la chiave per uscire dalla disuguaglianza

La seconda scoperta è più complessa, riguarda quel piacere magico che forse qualcuna di voi ha provato nel mettere ordine, nel ripulire, nel far rifiorire un luogo attraverso i gesti umili e faticosi della quotidianità domestica. E che emerge dalle pagine di Virginia Woolf come di Natalia Ginzburg. Cercando la chiave per connettere questo piacere con la fatica che tutte associamo alla gestione di una casa, ho capito di essere caduta vittima di un abbaglio molto comune anche a una parte del movimento femminista: non aver riconosciuto valore alle storiche attività femminili, attribuendone molte di più a quelle extra domestiche svolte dagli uomini, che si ambiva a svolgere a propria volta. Come dice la sociologa Silvia Federici, non possiamo risolvere il problema della disparità senza risolvere prima quello della svalutazione. Dobbiamo restituire dignità a ciò che noi stesse abbiamo svilito, dobbiamo dirci che queste sono le attività più importanti del mondo. Restituire loro valore è la chiave per uscire dalla schiavitù.

Annalisa Monfreda e la sua piccola rivoluzione domestica

In che modo l’aver cambiato prospettiva sul lavoro domestico abbia contribuito a salvare il mio matrimonio è un difficile esercizio di ricostruzione. Oggi credo di essere riuscita a trovare una nuova lingua con cui parlare al tavolo della cena. A trasmettere agli altri membri della famiglia non il peso, la fatica, lo svilimento legato a quelle attività, bensì il valore di ciascuna di esse. E a fondare un nuovo patto per cui far parte della famiglia significa partecipare all’assegnazione quotidiana di compiti, con relativo carico mentale. Non più microazioni svuotapensieri come apparecchiare la tavola o stendere il bucato, ma la gestione totale dall’inizio alla fine di un certo compito, incluso il ricordarsi di svolgerlo. Per cui un pranzo significa pensare cosa cucinare, comprare gli ingredienti, cuocerli. Con il tempo ho osservato l’effetto più sorprendente di questo nuovo modo di partecipare alla vita familiare. Germogliava in mio marito un sommesso orgoglio di essere parte di una piccola grande rivoluzione. Era qualcosa che andava ben oltre la nostra dinamica di coppia e il nostro matrimonio. Era qualcosa che, attraverso le nostre figlie, sarebbe sopravvissuta a noi.

Riusciremo a rompere i meccanismi di una società patriarcale?

Periodicamente, però, il nastro delle nostre conquiste si riavvolge all’indietro. Nei momenti di picchi di lavoro, lui torna a richiudersi dietro la porta magica e io a chiedermi cosa possa una piccola rivoluzione domestica contro un’organizzazione del lavoro che ancora premia la disponibilità illimitata di tempo e una legge sul congedo parentale che trasforma le donne nel genitore di default. Più volte, durante questo anno, ho perso la speranza che la nostra nuova distribuzione di carico potesse sopravvivere alle sollecitazioni di una società ancora profondamente patriarcale. Eppure, lo abbiamo imparato, sono i piccoli cambiamenti individuali a far aumentare il desiderio per un cambiamento più vasto, sociale, politico, economico. È già successo per tanti diritti civili: le leggi e il mondo del lavoro cambieranno quando molti individui come noi porteranno a termine la loro piccola rivoluzione domestica. Non è dunque questo il momento di mollare.

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