insoddisfazione

Insoddisfazione cronica: psicologia di chi non si accontenta mai

Dal lavoro all'amore, il senso di non avere mai abbastanza… non essere mai abbastanza. Ecco che cosa si nasconde dietro un disagio sempre più frequente

Hai ricevuto una promozione, o forse stai uscendo dalla porta di casa con le ali ai piedi dopo un incontro d’amore emozionante; magari hai appena raggiunto qualcosa a cui aspiravi oppure ti sta semplicemente capitando un momento di intensa felicità, eppure…

È questo termine, “eppure”, che si ripete nella mente di continuo e getta un’ombra. Quello che porta con sé ha il potere di creare una barriera fra ciò che viviamo e quello che vorremmo: quando la pronunciamo dentro inizia una spaccatura, l’inizio di una divisione che fa male. Dentro la nostra mente vive un’idea costantemente irraggiungibile, più brillante e completa rispetto alla realtà di tutti i giorni.

È qui che si cela la chiave per capire il senso profondo dell’insoddisfazione cronica, una condizione sempre più diffusa, che ha il sapore amaro della mancanza e manifesta un disagio in grado di avvelenare la vita.

Soddisfatti Vs Insoddisfatti

Il termine “soddisfazione” in lingua latina rimanda al satisfacere, soddisfare, composto di satis, sufficiente, e fare: ciò che basta. In questa radice etimologica troviamo anche l’origine di parole come “sazio” e in fondo proprio di questo si tratta, l’appagante sensazione di quando ci sentiamo sazi: di cibo, materiale e simbolico, di vita.

Lo psicologo statunitense Abraham Maslow, che nel 1962 fonda l’American Association for Humanistic Psychology,  fra gli Cinquanta e Sessanta compie ricerche sui processi psicologici alla base dello sviluppo umano. Nel suo libro Motivation and Personality, pubblicato nel 1954, diffonde il concetto di Hierarchy of Needs, nota come Piramide di bisogni. Dai bisogni primari a quelli di ordine superiore, spiega Maslow, procediamo in senso ascendente cercando la soddisfazione delle nostre necessità per gradi, verso una completezza crescente.

I bisogni fisiologici sono quelli legati al corpo e corrispondono alle necessità della sopravvivenza, il primo e fondamentale impulso alla vita a cui ogni essere umano è legato. Quando la sopravvivenza vacilla tutta la nostra energia si focalizza lì, in un disperato tentativo di resistere alla lotta.

«Molti schioccano le labbra e dimenano le mascelle. Sognano di mangiare: anche questo è un sogno collettivo. È un sogno spietato, chi ha creato il mito di Tantalo doveva conoscerlo. Non si vedono soltanto i cibi, ma si sentono in mano, distinti e concreti, se ne percepisce l’odore ricco e violento; qualcuno ce li avvicina fino a toccare le labbra, poi una qualche circostanza, ogni volta diversa, fa sì che l’atto non vada a compimento… e questo senza tregua, per ognuno di noi, per ogni notte e per tutta la durata del sonno». Quando Primo Levi scrive queste parole racconta il terribile scenario del campo di concentramento. Il bisogno di appartenenza e sicurezza, che nella scala di Maslow si situano immediatamente dopo le necessità fisiologiche del corpo, vengono schiacciati e fatti a pezzi durante una guerra. 

Nuovi stili di vita, nuovi bisogni

Dove viviamo noi? Nel mondo occidentale, in un’Italia che vede la guerra attraverso gli schermi del televisore, chi è nato fra gli anni Cinquanta e i Sessanta rappresenta la prima generazione a essere nata dopo la guerra. In quegli anni respira la forza e la speranza della ricostruzione, un periodo unico nella storia italiana. Questa generazione negli anni Ottanta e Novanta lavorerà sperimentando un benessere destinato a infrangersi dopo poco. Ed ecco che arriviamo alle generazioni attuali, messe in discussione dalla crisi e coinvolte in un viaggio di riscoperta che porta in scena valori differenti, riformulati in base a stili di vita che non trovano più applicazione.

Il senso di sicurezza, nel lavoro e nella società, oggi è definitivamente infranto; si diventa consci di un precariato che non è solo materiale, a livello di contratti e impieghi, ma diventa psicologico. Eppure è altrettanto innegabile che le condizioni di vita negli ultimi cinquant’anni abbiano conosciuto un generale miglioramento. Lo diamo per scontato, ma viviamo in case calde, attrezzate, con acqua corrente e impianti di riscaldamento ben funzionanti, circondati da un’infinita serie di elettrodomestici, molti dei quali superflui.

Viviamo nell’epoca degli oggetti (che spesso rendono straripanti le nostre case e allora via con il decluttering) e dei viaggi low cost: il mondo è diventato più piccolo e raggiungibile. Se partire alla ricerca di un lavoro e condizioni di vita migliori rappresenta uno strappo doloroso, tecnologie come skype e la possibilità di un biglietto aereo a prezzi accessibili rendono il viaggio meno definitivo rispetto a quello che tanti dei nostri avi, nonni e bisnonni, fecero per non tornare mai più.

Eppure (ancora torna questa parola) il bisogno di soddisfazione che si agita dentro di noi può farsi sentire con un grido capace di far vacillare tutto. Sì, perché in una società come la nostra, la fame diventa una questione estremamente complessa.

Insoddisfatti totali? Dal lavoro alle relazioni d’amore

Da una parte siamo bombardati da notizie catastrofiche di esseri umani che uccidono, terrorizzano o giocano con la vita di altri esseri umani. Dall’altra riceviamo altrettante notizie da chi ce l’ha fatta. Progetti miliardari che sembrano aver preso vita da un’idea casuale, fortune improvvise, esistenze vip sbirciate di nascosto diventano il riferimento continuo.

Nel turbine della comunicazione anche i social fanno la loro parte, perché dalle foto felici ai messaggi d’amore urlati nelle pagine pubbliche la condivisione diventa a senso unico: diciamo solo quello che è bello, che suona di successo e fortunato. Poche volte si narra quello che davvero c’è dietro a progetti vincenti o successi personali. Fatica, perseveranza e probabilmente anche una serie di fallimenti che hanno portato a sviluppare idee migliori.

Perché succede e cosa possiamo fare per fermare il senso d’insoddisfazione

Anche tu puoi farcela ad avere tutto e se non ce la fai è perché non fai abbastanza, avanti così, risuona il grido. No, non è vero.

Dopo secoli di storia emerge intatto il senso di un concetto che forse possiamo iniziare, lentamente, a riscoprire: «Chi non è soddisfatto di ciò che ha, non sarebbe soddisfatto neppure se avesse ciò che desidera». Nelle parole del filosofo greco Socrate si cela qualcosa che spesso ci sfugge: avere desideri, evolvere, cercare nuove formule per una vita più felice è legittimo, ma possiamo realizzarlo solo partendo da ciò che abbiamo.

Partire da ciò che si ha significa iniziare a vedere e accettare ciò che siamo. Con la sua precarietà, con le incertezze e le mancanze che sono proprie dell’esistenza. È da questo che può nascere la capacità di vedere anche quello che ci rende ricchi in quanto ac-cresciuti dal percorso di vita che abbiamo fatto, non per ciò che possediamo bensì per ciò che siamo. Meno affamati e più grati.

Gratificante non è solo la fame placata nel raggiungimento di un obiettivo costante, bensì la capacità di acquisire la consapevolezza di essere vivi e che la nostra forza più grande è il costante fare esperienza della vita, pur non sapendo dove ci porterà.

Ogni scelta implica una rinuncia

La Dr.ssa Elena Lupo, Psicologa e Psicoterapeuta, a proposito di come superare il fallimento e della paura di sbagliare parla di FOMA, una nuova forma di disagio, in cui molti di noi possono rispecchiarsi. Il concetto dietro all’acronimo, fear of missing anything, ovvero la paura di perdere qualsiasi cosa, appare profondamente connesso alla questione dell’insoddisfazione cronica.

In un mondo in cui (apparentemente?) possiamo avere tutto, ogni scelta diventa perdente. È semplice: succede perché scegliendo una cosa inevitabilmente ne perdiamo un’altra. Imboccando una strada, tracciamo una traiettoria e allora la mente inizia un processo di overthinking in cui rimuginiamo all’infinito su ogni possibile variante e questo può farci cadere nella trappola dell’inazione e della frustrazione.

Non esiste una “strada perfetta” ma solo ciò per cui vale la pena lottare

La domanda a cui ci riporta l’antica lezione della filosofia è proprio questa: siamo davvero certi che avendo tutto ci sentiremmo completamente soddisfatti? Che cos’è “tutto”? Un lavoro che ci renda ricchi e felici, un amore appassionato e sincero, una famiglia unita, amici di fiducia?

Quello che la tendenza al perfezionismo non vede (ed è per questo che ci massacra) è che anche dietro un buon lavoro, una coppia felice, o in generale una vita gratificante, ci sono scelte, impegni, fatica: c’è la realtà. Più che avere tutto, forse per questo sarebbe già molto (e persino abbastanza) iniziare a chiedersi per che cosa il nostro cuore è disposto a lottare e avere il coraggio di andare dritto verso ciò che veramente per noi vale la pena.

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