Noi, che lottiamo contro la bulimia

Oltre 3 milioni di italiani soffrono di disturbi alimentari. Ma, più che l’anoressia, oggi l’allarme riguarda il “binge eating”, l’abbuffata incontrollata. Due giovani donne si raccontano

Sono sempre di più, sia donne sia uomini, anche over 40. Vivono con la valigia in mano, pronti per lunghi viaggi della speranza su e giù per il Paese. È la fotografia dei malati di bulimia scattata dal ministero della Salute. In Italia 3.200.000 persone lottano contro i disturbi del comportamento alimentare: per il 30% di loro il nemico si chiama anoressia, il 70% soffre di bulimia e “binge eating”, l’alimentazione incontrollata. Se dovessimo usare un’inquietante metafora, potremmo dire che le “grandi abbuffate” sono diventate l’emergenza. Eppure le strutture ad hoc per curare queste patologie assomigliano a oasi nel deserto.

Il cibo diventa una droga

«Chi soffre di bulimia ha una dipendenza: il cibo è come una sostanza stupefacente». Leonardo Mendolicchio spiega così questa patologia. Psichiatra e psicologo, è direttore sanitario di Villa Miralago di Cuasso al Monte (Varese), la più grande comunità terapeutica italiana per disturbi alimentari. «Prima la malattia colpiva soprattutto ragazze del ceto medio-alto, ora è un problema trasversale. Compare tra i 16-19 anni, più tardi dell’anoressia, ma ormai visito molte over 40 e diversi uomini. È una patologia subdola perché non implica drastici cali di peso: si può nascondere, e infatti i numeri non tengono conto del sommerso elevato.

Lo schema classico del bulimico prevede pasti esagerati e incontrollati, legati a una crisi: dietro c’è una cattiva notizia, un’insoddisfazione profonda. Poi subentra il senso di colpa che porta al vomito, in un circolo vizioso che dura anni. Per cancellare le abbuffate si usano anche lassativi e diuretici, con conseguenti gastriti e malnutrizione, fino al rischio di arresto cardiaco nei casi più gravi. La bulimia è un disturbo psichiatrico, se ne può uscire con un approccio integrato: la terapia cognitivo-comportamentale, la cura del corpo e la rieducazione alimentare per riscoprire il cibo come momento di gioia e convivialità».

Per guarire servono almeno 2 anni

La cura è un percorso lungo, che coinvolge tutta la famiglia. «In Italia ci sono specialisti di ottimo livello e la sensibilità verso queste patologie è in grande aumento» 40 spiega Laura Dalla Ragione, direttore della Rete dei disturbi del comportamento alimentare Usl 1 dell’Umbria. «Per la guarigione servono almeno 2 anni. Il 60% dei pazienti può essere seguito in ambulatorio, dove fa terapia 1-2 volte alla settimana. Il resto ha bisogno di ricoveri in ospedale o in centri residenziali, pubblici o convenzionati. Le strutture, però, sono a macchia di leopardo.

Al Centro-Sud e nelle Isole ne abbiamo una, massimo 2 per Regione, in Molise nessuna. Tra viaggi e trasferimenti a volte capita che la diagnosi arrivi in ritardo, così il disturbo si cronicizza, o che si interrompano le terapie nel momento più critico».

Chi ti può aiutare

Su Disturbi Alimentari c’è la mappa delle strutture divise per Regione e l’elenco delle associazioni. Il numero verde 800180969 risponde 24 ore su 24 per consulenza e sostegno psicologico. Per aiuto, supporto e consulti gratuiti c’è anche la onlus Never Give Up, presente in tutta Italia con servizi di prevenzione, che ora lancia una campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi con il numero solidale 45586.

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Le testimonianze

Clarissa, 25 anni L’abito bianco che profuma di rinascita, le nozze con l’uomo che ama, il sogno di diventare mamma. Clarissa Iracà riparte da qui. Sembra strano parlare di rinascita a 25 anni, ma questa ragazza lotta da quando doveva ancora compierne 18. «Riavvolgo all’indietro il filmato della mia battaglia e mi vedo alla “festa dei 100 giorni”, quella che segna il conto alla rovescia per l’esame di maturità: sono con il mio ragazzo dell’epoca e lui spoglia con lo sguardo un’amica magrissima. In quel momento sono entrata nel baratro. Per 12 mesi ho sofferto di anoressia: mangiavo una volta al giorno, contavo ossessivamente le calorie. Se ne ingurgitavo 1.000 dovevo sudare in palestra per bruciarne 1.200. Poi l’anoressia si è trasformata in bulimia, come capita a tanti, e si è aggiunto il rito delle grandi abbuffate. Lo celebravo di pomeriggio, ero sola in casa e mangiavo qualsiasi cosa trovassi, senza sentire il sapore. Poi il senso di colpa mi spingeva a vomitare o a usare lassativi per perdere peso, mentre la bilancia oscillava anche di 10 chili nel giro di pochi mesi. I miei genitori? Non se ne sono accorti: sono separati, vivono in città diverse e io era abilissima a nascondermi. Sono crollata quando il vomito ha causato problemi di deglutizione, faticavo a respirare. Una notte ho pensato di morire e ho chiesto aiuto a mamma». Clarissa inizia così il lungo percorso della cura, seguita dal fidanzato Daniele. «Ho cambiato 2 psicologi prima di approdare al Centro disturbi alimentari di Pescara, che è stato una salvezza. Con la terapia cognitivo-comportamentale ho portato a galla il mio disagio: avevo bisogno della malattia per andare avanti perché, altrimenti, avrei preferito non esistere. La bulimia era il modo per gestire il dolore di vivere, che era insopportabile. Ora la depressione è migliorata e dalla scorsa estate mi sento meglio. Ho qualche ricaduta, però so come rialzarmi».

Melissa, 27 anni «Ho accettato di raccontarmi perché intorno alla malattia circolano troppi luoghi comuni: non è una moda o una questione di poca volontà, ma un disturbo della mente che ti annienta». Questa frase è l’unica che Melissa Colassessano pronuncia con forza, mentre le altre costano fatica e le incrinano la voce. Ha 27 anni, si sta laureando in Lingue e guarda le fotografie con un misto di timidezza e stupore. «Sono un riassunto spietato della mia quotidianità da quando frequentavo le superiori: le passeggiate infinite tra bagno e cucina, le 10.000 calorie divorate in un giorno per soffocare le emozioni, anche quelle positive, le dita in gola, le fughe in palestra. Proprio lì ho conosciuto Clarissa: ci siamo guardate e siamo scoppiate a piangere perché abbiamo riconosciuto lo stesso dolore l’una negli occhi dell’altra. Lei mi ha consigliato il centro dove sono in cura da 3 anni e mezzo». La strada è ancora lunga. «I sintomi si sono cronicizzati, lotto e spero di guarire ma sento che la fragilità farà sempre parte di me. Io prendevo il massimo dei voti agli esami, lavoravo in un negozio, uscivo con gli amici come se nulla fosse: questo mi ha portato a convivere con il problema. Ora in terapia ho capito che non serve attribuire colpe, parlare del mito della madre onnipresente o del padre assente, ma bisogna guardarsi dentro e cambiare. Ecco, voglio tornare in mezzo alla gente. La malattia mi aveva fatto piombare nella solitudine, sprecavo le giornate chiusa in una stanza a spegnermi sempre di più».

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