Tiroide e Covid: che legame c’è

Il virus Sars-Cov2 può danneggiare la tiroide, ma non solo: in pandemia sono aumentate le malattie a carico di questa ghiandola, a causa dello stress. Ecco i sintomi da tenere d'occhio

Sentirsi stanchi, spossati, con dolori o febbricola dopo essere guariti dal Covid potrebbe essere il campanello d’allarme di una delle conseguenze del virus Sars-Cov2 nell’organismo, in particolare di un effetto che può dare a livello della tiroide. A scoprirlo sono stati gli esperti endocrinologi, partendo dall’osservazione di alcuni pazienti in oltre un anno di pandemia. Al nesso tra Covid e tiroide è ora dedicato un incontro, organizzato dal Centro Auxologico di Milano, che aderisce alla Settimana Mondiale della Tiroide 2021 (24-30 maggio) e in programma giovedì 27 maggio alle ore 18, in modalità online (per iscriversi: [email protected] Tel. 02.61.911.2313/2628).

Ad anticiparne alcuni contenuti a Donna Moderna è la Prof.ssa Laura Fugazzola, endocrinologa e Responsabile del Centro Tiroide dell’Auxologico.

Tiroide e Covid: che nesso c’è?

Il virus Sars-Cov2, responsabile del Covid, può avere effetti sulla tiroide? «Sì, gli studi condotti finora ci hanno dimostrato che c’è un nesso tra il coronavirus e la ghiandola tiroidea. Proprio come accade con altri virus, il Sars-Cov2 è in grado di entrare nella tiroide e di distrugge le cellule che ne compongono il tessuto e contengono ormone tiroideo. La tiroide, infatti, è un po’ come se fosse un serbatoio: se il tessuto è danneggiato, gli ormoni immagazzinati vengono liberati e vanno in circolo» spiega l’esperta.

La tiroidite post Covid

«Il primo effetto è un ipertiroidismo, anche se solo apparente perché non dovuto a iperproduzione. Questa condizione è detta di tiroidite subacuta» continua la professoressa. Col passare del tempo la situazione torna alla normalità, almeno nella maggior parte dei casi: «Una volta eliminato il virus dall’organismo, la tiroide riprende la sua funzionalità – spiega l’endocrinologa – Sono stati però segnalati alcuni casi, circa il 10/20%, nei quali non c’è stato un pieno recupero e si è dovuto ricorrere a una terapia a base di tiroxina, l’ormone della tiroide».

L‘”influenza della tiroide”

Come capire se si è in presenza di un problema alla tiroide causato dal coronavirus? «In genere ci sono alcuni sintomi che permettono di individuare il problema. Intanto va detto che i danni alla tiroide, dovuti al Covid, solitamente compaiono un paio di settimane dopo la guarigione dalla malattia. Se si avvertono febbricola, spossatezza come da infezione virale, tachicardia, sudorazione, ma soprattutto dolore al collo che si irradia all’orecchio, allora è il caso di rivolgersi al medico, che potrà valutare la situazione. Sono sintomi analoghi a quelli di uno stato influenzale, ma con l’aggiunta del dolore nella sede della tiroide, tanto che si parla di influenza della tiroide» spiega la dottoressa Fugazzola.

Basta una semplice ecografia insieme agli esami del sangue per controllare i livelli di Tsh (l’ormone della tiroide) e alcuni indicatori di infiammazione, per arrivare a una diagnosi. L’ipertiroidismo iniziale, invece, non porta a variazioni peso: «Si tratta di una forma lieve che non comporta alcun cambiamento sensibile» esclude l’esperta.

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Anche la tiroide subisce lo stress del Covid

Che nesso c’è, invece, con problemi di tiroide legate a malattie autoimmuni, come la celiachia? «In questo caso il legame è di tutt’altra natura – premette l’esperta – Se finora abbiamo parlato degli effetti del virus su una tiroide sana, l’autoimmunità – che pure porta anche a malattie a carico della tiroide – non c’entra. Il legame, però, esiste nella misura in cui la pandemia è fonte di stress. Tutte le malattie autoimmuni, infatti, hanno una base genetica, sono frutto di una predisposizione e tra queste ci sono anche ipotiroidismo o ipertiroidismo. Generalmente a scatenare l’azione degli anticorpi che danno il via alla malattia autoimmune è lo stress e certamente abbiamo osservato, in pandemia, un aumento di questo genere di patologie, complice il confinamento forzato o la perdita di persone care».

«Un altro fenomeno che abbiamo osservato e che riguarda i pazienti ospedalizzati, è che nei malati Covid si è sviluppata la cosiddetta sindrome da bassa T3: accade che l’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide si mette a riposo e produce meno ormone tiroideo. E’ un meccanismo di protezione per non stressare l’organismo. Accade, però, non solo nei casi Covid, ma anche ad esempio in caso di incidente e ricovero in terapia intensiva. Una volta guariti, tutto torna nella normalità» spiega Fugazzola.

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Quanto conta l’alimentazione

Intanto diminuiscono i numeri relativi alla diffusione delle patologie a carico della tiroide tra i bambini. Secondo gli esperti è merito dell’alimentazione e in particolare del sale iodato sulle tavole degli italiani, grazie anche agli effetti di una legge, approvata 15 anni fa, che ne prevedeva la diffusione. Secondo il report dell’Osservatorio Nazionale per il Monitoraggio della Iodoprofilassi in Italia-OSNAMI dell’ISS, in collaborazione con gli Osservatori Regionali per la Prevenzione del Gozzo, proprio il gozzo in età scolare è scomparso. Riguarda ragazzini tra gli 11 e i 13 anni.

«Per noi è indicatore positivo e significa che il sale iodato è ormai utilizzato dalla maggior parte delle famiglie. Questo permette di arrivare ai livelli minimi di fabbisogno giornaliero di iodio. Va detto che, a parte questo, l’alimentazione non incide sulla tiroide. L’unico consiglio è, in chi ha ipertiroidismo, evitare le alghe (utilizzate, per esempio, nel sushi) e i crostacei, perché questi contengono molto iodio. Quanto alla soia, su cui alcuni hanno dubbi, non ci sono controindicazioni, se non l’accortezza di non assumerla insieme alla tiroxina, in chi segue una terapia a base di quest’ultima, perché ne riduce l’assorbimento: è sufficiente mangiarla a qualche ora di distanza dal farmaco» conclude l’esperta.

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