Perché le donne guardano Unorthodox

La serie Netflix ambientata in una rigida comunità di ebrei ortodossi a New York è un successo. Perché è basata su una storia vera, che l’autrice racconta qui. E perché tocca un tema universale: «Nessuno è più potente di una donna che è riuscita a emanciparsi»

Le ragazze perbene parlano yiddish e portano calzamaglie coprenti. Non leggono romanzi e quando incontrano l’uomo scelto per loro dalla famiglia non gli dicono: «Io sono diversa». Deborah Feldman, 33 anni, ha fatto questo e tanto altro. Cresciuta dai nonni nella comunità ebrea ultra-ortodossa Satmar di Williamsburg, a Brooklyn, ha cercato il suo spazio in quella vita scandita da regole, preghiere e rituali millenari. A 17 anni si è sposata con Eli, uno studente della Torah, e a 19 gli ha dato un figlio. «Speravo che con lui avrei conquistato un po’ di libertà, ma non appena mi liberavo da una restrizione, ne trovavo subito un’altra da combattere» racconta al telefono da Berlino, dove vive ora. Con una scusa si è iscritta all’università e poco alla volta ha maturato l’unica decisione possibile: fuggire. Nel 2012 la sua storia è diventata un’autobiografia di grande successo (vedi box) e di recente l’ispirazione per “Unorthodox”, la miniserie cult di Netflix che lei stessa ha aiutato a produrre. «Ho acconsentito a qualche cambiamento, ma solo a patto che non stravolgesse la narrativa» dice.

«Non importava che avessi personalità, talenti e desideri: volevano cancellare la mia individualità». In realtà il vissuto di Deborah e quello di Esty Shapiro (la protagonista della trasposizione tv, interpretata dalla bravissima Shira Haas) si sovrappongono spesso. Per esempio quando Esty è costretta al rito del mikveh, l’immersione in una vasca per purificarsi dopo ogni ciclo mestruale, e del taglio dei capelli a zero dopo le nozze, in segno di modestia. «Mi insegnavano a vergognarmi del mio corpo, sporco e fonte di peccato, ma alla fine era l’unica cosa che mi dava valore, perché mi permetteva di procreare» racconta Deborah. «Non importava che avessi una personalità, talenti, desideri. Era come se queste persone volessero cancellare la mia individualità. Oggi mi alzo sempre con lo stesso obiettivo: mostrare che sono una persona reale, diversa dalle altre». Scappare non è tanto una questione di coraggio. «Come tutti quelli che si sono rifatti una vita, la molla è stata un’altra: una disperazione profonda che non mi lasciava alternative» dice l’autrice. «Solo quando arrivi a quel punto ti convinci che per nessun motivo tornerai indietro e fai un ultimo sforzo per sopravvivere. Chi se n’è andato solo per la curiosità di vedere che cosa c’era fuori non è mai riuscito a chiudere davvero con la comunità».

«Continuo ad avere paura perché mi hanno inculcato l’idea che Dio esiste per essere temuto». A differenza di Esty, che nella serie tv fugge appena scopre di essere incinta, Deborah lo ha fatto con un figlio di 4 anni. «Per diverso tempo ho temuto che me lo portassero via» ricorda. «Lo guardavo e pensavo: “Forse io non merito una vita migliore, ma lui sì”. E lui mi ha indicato la strada: anche quando ero sola e senza speranza, avevo sempre il ruolo di madre». Il prezzo della libertà? Altissimo. «Mi sentivo fluttuare, non avevo appigli e all’inizio mi sono salvata imponendomi di non pensare» confessa l’autrice, per cui alcune catene sono ancora difficili da sciogliere. «Continuo ad avere paura, perché mi hanno inculcato che questo è l’unico modo per sopravvivere: Dio esiste per essere temuto. Ma grazie alla psicoterapia ora so convivere con certi condizionamenti: non bisogna cancellarli, ma fargli spazio nella mente, così che non travolgano tutto il resto». Di solito chi rinnega la vita chassidica scompare nel nulla. Deborah invece ha avuto successo: vive felicemente a Berlino, «dove la gente lavora per conciliare passato e presente». Rancore? «No. È una comunità fondata da sopravvissuti alla Shoah: persone traumatizzate nel profondo, che non si possono giudicare. Ormai siamo lontani».

«Anche gli uomini, se sbagliano, vengono giudicati. Ma ottengono sempre il perdono». Per un uomo è molto più facile svicolare tra le strette maglie della vita chassidica. In “Unorthodox” lo si vede con il personaggio di Moishe, il cugino del marito di Esty che nonostante le ripetute trasgressioni gode della benevolenza del rabbino. «Mentre le donne vengono controllate con regole rigidissime, agli uomini tocca un mix di precetti e ricompense» spiega. «Una su tutte: se ti comporti da buon ebreo avrai una moglie a cui dare ordini. Se sbagliano anche loro vengono giudicati, ma alla fine ottengono sempre il perdono». Il paradosso: spesso le donne si comportano come sentinelle inflessibili, a tutela di quei codici di comportamento che le vogliono sottomesse. «Ma nella mia seconda vita ho trovato molta più solidarietà femminile» dice. «Molte di noi sono ancora sottomesse, ma nessuno è più potente di una donna che è riuscita a emanciparsi». E a chi ancora non ce l’ha fatta, che cosa suggerisce? «Di mettere in dubbio quello che ci viene insegnato. Ci ripetono che siamo deboli, bisognose di qualcuno. Invece abbiamo una voce potente dentro di noi. Fidiamoci di lei».

Il libro da cui è tratta la serie tv

"Ex Ortodossa. Il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche"(Ed. Abendstern) è il memoir appe
Ex Ortodossa. Il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche
(Ed. Abendstern) è il memoir appena uscito in Italia con cui Deborah Feldman ha raccontato la sua vita scandita da durissimi rituali nella comunità chassidica di Williamsburg, a New York. Una storia “lontana”, che invita a una riflessione: si può chiudere con il passato senza perdere la propria identità?
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