“Non ho voglio di pensare”

A volte persino pensare a cosa preparare per cena può essere pesante. Non è sintomo di idiozia, ma di una sensazione di oppressione che ci obbliga a dover essere sempre produttive, che deriva dal passato e da una società sempre più competitiva. Ne parliamo con l'esperto.

Non ho voglia di pensare” è una frase che spesso si dice a se stesse o all’altro in quei particolari momenti in cui si sente forte il bisogno di relax; e l’unico desiderio è avere la mente libera da pensieri.

Eppure pensare non è solo riconducibile al pensiero logico-razionale, per cui sono richiesti problem solving e concentrazione. Pensare fa anche riferimento al far fluire la propria mente producendo fantasie, ricordi, sensazioni che confluiscono in un flusso di coscienza, proprio come quello teorizzato dai grandi scrittori del Novecento. Dunque è un pensare diverso dal “cogito” in senso logico – cognitivo.

Ciò presuppone una situazione di grande libertà psicologica e non il dover essere costretti a dare delle risposte a qualcuno, come se si fosse sottoposti ad un esame. Se non siamo in questo contesto di libertà e di serenità, ma ci sentiamo obbligati a produrre un pensiero ad ogni costo, non siamo più nel campo libero.
Ma sentiamo addosso la responsabilità di doverlo fare, come se fossimo oppressi da una richiesta urgente che ci invita o ci costringe alla iperproduzione di idee (per esempio nel campo del lavoro o dello studio).

“Se ci sentiamo costretti non riusciamo a pensare – sostiene lo psicoterapeuta a Bologna, Roberto Pani – perché in questo caso pensare equivale a fare dei lavori forzati”.

Secondo la teoria dell’intelligenza emotiva, sostenuta da Goleman, la creatività nasce dalla non costrizione e dall’ascolto spontaneo dei propri pensieri senza paura di entrare in un mondo irrazionale.

“La paura dell’irrazionale, che consiste nella paura di perdere il controllo – prosegue lo psicoterapeuta Pani –  impedisce di raccogliere le nostre risorse spontanee, ci chiude in una prigione dalla quale ci sembra di non poter uscire”.

Pertanto non aver voglia di pensare potrebbe rivelare questa sensazione di essere costretti a rispondere a qualcuno, come ad esempio, un modello di perfezione imposto dai mass media o un dover fare tutto e bene imposto dai genitori (interiorizzati).

L’incapacità di concentrarsi, l’apatia e la scarsa motivazione ad occuparsi di qualcosa che occupi la mente può implicare un senso di oppressione. Quando durante la  giornata ci si ribella all’idea di applicarsi al punto da essere facilmente distratti, “ci sono le indicazioni per dire che c’è un rifiuto poiché ci si sente costretti a impegnarsi. Un mix tra esperienze primarie e società si somma alla scarsa motivazione. Se le esperienze infantili familiari non davano il giusto valore alla persona, evitando che il pensiero creativo fosse un divertimento ma rendendolo molto più simile ad una costrizione, è molto probabile che da adulti si viva con costrizione molte situazioni in cui è richiesto un impegno verso una cosa che non si gradisce molto” – continua lo psicoterapeuta.

Quando si è molto stanchi, persino pensare a cosa cucinare può essere “pesante”.

Se a tutto ciò aggiungiamo una società che è sempre più perfezionistica e competitiva, la situazione si complica al punto che il “non voler pensare” diventa una vera e propria ribellione a ciò che ci sembra venga chiesto.

Federica, creatrice di gioielli, conferma di fare un lavoro molto impegnativo in cui sono richieste grandi capacità di pensiero creativo.
Ammette che all’inizio della settimana il suo “dover produrre idee” la obbliga a tal punto che si rifiuta di pensare, e quindi di iniziare a lavorare. E’ come immobilizzata.

Grazie all’ascolto di se stessa ha saputo ricondurre questo suo desiderio di non voler pensare al fatto che sin da piccola ha vissuto gli impegni scolastici come imposti da un genitore che la obbligava ad essere la prima della classe, o almeno lei lo ha vissuto così.

Oggi – libera professionista – sente ancora l’eco di quei “comandamenti”, e nelle situazioni si stress, si rifiuta di pensare e di produrre, appunto, desiderando lasciarsi vivere.
A poco a poco, Federica comprende che nel suo lavoro (libero e creativo) non c’è nessuno che la obbliga a produrre, ma che il suo senso di oppressione è un vecchio strascico del passato. Compreso il meccanismo, Federica diventa sempre più libera di pensare, in maniera questa volta creativa. Ciò non solo giova al suo lavoro, ma anche alla sua serenità interiore.

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