“Accabadora”: vita, morte e maternità nella Sardegna di Michela Murgia

Il nuovo romanzo di Michela Murgia è una riflessione sulla vita, la morte e la maternità nella Sardegna rurale, e nel nostro presente.

Sarebbe facile parlare di Accabadora, il romanzo di Michela Murgia uscito da pochissimo per Einaudi, come del solito libro folk, ambientato in un mondo meticolosamente ricostruito, buono per farsi un viaggetto di testa . Invece Accabadora è un libro al passato che è pieno di presente. La storia di Maria, e della sua vita con l’oscura e misteriosa Tzia Bonaria, che fa i vestiti per i vivi e “l’ultimo cappotto” per i morti, non è difficile da applicare al nostro presente. I temi che tratta – la maternità, la morte come evento comunitario e non individuale – sono straordinariamente attuali. «Ho voluto che Accabadora fosse quanto di più lontano possibile da un romanzo a tesi» spiega l’autrice, «anche perché credo che sarebbe una forzatura violenta voler accostare l’accabadura all’eutanasia. La prima si genera in un contesto dove la volontà del singolo è del tutto subordinata alla responsabilità della comunità. L’eutanasia come la concepiamo noi, oggi, è l’estremo atto di autodeterminazione, nasce in un contesto in cui anche l’assistenza all’agonizzante non è più comunitaria. Oggi si pretende la vita ad ogni costo pur sapendo che quel costo peserà solo sul singolo o sulla sua famiglia.»

L’accabadora, la donna che dà il colpo di grazia agli agonizzanti, è la figura centrale del paesaggio relazionale di un romanzo quasi interamente al femminile, in cui gli uomini si muovono sullo sfondo, padroni ma estranei. «In questa storia ci sono molti fatti, ma soprattutto c’è il “sentire” di quei fatti, la loro interpretazione nell’economia della piccola comunità dove tutto si svolge, e dove il ruolo dell’interprete spetta sempre e comunque alla donna. Quando padre e figlio vanno dalla vecchia Bonaria con i resti di un maleficio in mano, non ci vanno per ottenere spiegazione, ma perché riconoscono il ruolo sciamanico della donna anziana.»

Tra tutte le relazioni del romanzo, la più importante è sicuramente quella fra Tzia Bonaria e Maria, la bambina che Tzia Bonaria si prende in casa secondo l’antico costume dei fillus de anima: una famiglia che ha molti figli, troppi per poterli sostenere, può scegliere di affidarne uno o più a una donna o a una coppia che non ne hanno avuti. Un costume tutt’altro che estinto: «I fillus de anima esistono, io stessa lo sono. L’usanza nasce da un contesto sociale dove le relazioni sono un ammortizzatore sociale più efficace della burocrazia, e generano maggiore stabilità. Prima di scrivere Accabadora ho fatto molte ricerche sull’adozione affettiva, e ho avuto la possibilità di accedere all’archivio di Stato, dove sono contenuti i testamenti delle madri e dei padri adottivi, l’unico documento scritto dove appare traccia – spesso in maniera toccante – dell’accordo di filiazione, che esplicitava il passaggio di tutti i diritti e i doveri di mutua assistenza. Una cosa del genere può realizzarsi solo in comunità dove esiste il concetto di co-genitorialità, e la responsabilità di ciascuno è estesa alle scelte di tutti.»

Da un libro così, può nascere un dibattito pubblico? «Ti pare che Gomorra abbia innescato una riflessione comune sulla camorra? In Italia non esiste dibattito civile, piuttosto esistono arene dove paga solo chi fa scelte di campo. Credo, però, nella possibilità di innescare con la narrazione processi di consapevolezza individuali. Mi sembra già tanto.»

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