Giulia è tornata qualche giorno fa dalla gita di classe con la scuola materna. È felice, bellissima, sta bene. Potrebbe sembrare un commento scontato. Ma per me è molto di più. È una conquista, uniniezione di fiducia nel futuro delle mie bimbe.Io e mio marito Filippo ci siamo conosciuti a un matrimonio, un grande classico. Nel giro di un anno convivevamo e nel giro di due eravamo sposati. Solo un paio di anni dopo è nata Giulia. Una gravidanza regolare, un parto filato liscio e naturalmente una grande gioia. La nostra voglia di ingrandire la famiglia non poteva che essere incoraggiata. Infatti, Giulia aveva appena un anno, quando rimasi di nuovo incinta. Con lo svezzamento, però, erano cominciate le difficoltà: ogni volta che volevo darle la pappa o la frutta era un disastro. Pensavo che fosse abituata al latte materno e facesse fatica a rinunciarvi. Mia madre insisteva più di me, come fanno un po tutte le nonne, e mi diceva che dovevo darle la frutta. A fin di bene la forzava, e poi tante volte Giulia finiva per vomitare. Io ero più rinunciataria, ma non perché avessi intuito qualcosa, semplicemente ero stanca e, pigramente, desistevo senza farmi grosse preoccupazioni.

Quella mattina, che non dimenticherò mai, Giulia era entrata all'asilo nido senza aver mangiato niente a colazione. Forse per questo, o forse perché aveva veramente fame, trangugiò due cucchiaini di frullato di frutta, che di solito rifiutava, e si sentì male. Ero al lavoro in ufficio quando arrivò la chiamata del nido. Era la responsabile e mi diceva che Giulia aveva le convulsioni, stava male e l'avrebbero portata in ospedale. Misi giù il telefono, dissi alla collega che dovevo andare e corsi in macchina. Ero agitatissima e tremavo. Ci volevano 50 minuti di strada per raggiungere l'ospedale.Quando entrai nell'infermeria pediatrica c'era una grande confusione: mia madre, le due maestre, tre medici e mio marito. Giulia era lì, senza forze, sedata. Era come se dormisse, ma il suo aspetto era così senza vita che mi spaventava persino toccarla. La dottoressa del pronto soccorso era stata bravissima, perché oltre a darle l'anticonvulsivo si era resa subito conto che la glicemia era bassissima e che era quello il problema.

Anche il responsabile del reparto, un medico anziano che mi ispirava molta fiducia, mentre scriveva gli esami da fare, ci spiegò che non poteva essere uno svenimento normale, ma qualcosa di serio. Poi alzò lo sguardo e ci disse che i valori così bassi della glicemia facevano pensare a un problema con il fruttosio. Le maestre che avevano scortato Giulia in ospedale avevano raccontato l'episodio del frullato. E a quel punto mi tornarono in mente anche i pianti di Giulia di fronte alla merenda di frutta, le sue reazioni di malessere quando la nonna la forzava, il rifiuto dei biscotti e addirittura del gelato... Anche nei giorni seguenti non feci che pensare allo svezzamento difficile di Giulia e a convincermi che poteva proprio essere quella malattia del fruttosio. Ipotesi che anche la mia pediatra, aggiornata di tutto per telefono, aveva considerato non così grave. Non che fosse bello, ma l'altra possibilità, un problema del metabolismo dei grassi, era stata definito più seria. Appena tornata a casa non avevo resistito alla tentazione di andare su internet a cercare disperatamente le risposte ai miei dubbi. Avevo trovato solo conferme alle spiegazioni dei medici:

i bambini affetti dalla disfunzione del metabolismo dei grassi potevano perdere la memoria o la capacità di apprendimento. Mentre leggevo, continuavo a piangere. Non pensavo per niente alla bimba che avevo in pancia, essere incinta era l'ultimo dei miei problemi. Per me esisteva solo l'estenuante attesa dei risultati degli esami di Giulia. Mia figlia rimase in ospedale per sette giorni. Si era ripresa e mangiava, ma non sono stati giorni facili. Aveva la flebo nella manina e continuava a cercare di mettersela in bocca. Durante la notte, mi chiedeva il latte, l'infermiera responsabile non me lo dava e io non la sopportavo per questo, anche se allora né io né il medico potevamo sapere che il latte ogni due o tre ore le avrebbe fatto bene. Dopo un tempo che a me è parso infinito, è arrivato il primo risultato: Giulia non aveva problemi con il metabolismo dei grassi. Scongiurato il pericolo più grave, il mio sollievo fu enorme. Nell'attesa del secondo risultato mi convincevo sempre più che doveva trattarsi di fruttosemia, perché così si chiama la malattia metabolica in questione, sulla quale mi stavo già documentando.

Su internet avevo conosciuto un ragazzo di Roma, affetto dalla stessa patologia, a cui poi ci saremmo affezionati tanto che di recente è venuto anche a trovarci. La fruttosemia è una malattia metabolica che colpisce un neonato su 20.000 e che, nel mio caso, ha colpito due figli su tre. Io e mio marito, ora lo sappiamo, siamo entrambi portatori sani. Io e Filippo stavamo montando un armadio per la cameretta di Giulia, quando arrivò la telefonata del medico con l'esito definitivo degli esami. Fu subito in quell'occasione che il dottore mi offrì la sua consulenza genetica per eventuali prossimi figli. «È troppo tardi» risposi io «perché sono già incinta». Rimase di ghiaccio, però si riprese subito e fu molto carino, mi disse che se volevo potevo andare a partorire nello stesso ospedale dove ormai era in cura Giulia, così tutto sarebbe stato più semplice. Per tanti mesi, mentre la pancia cresceva, la mia occupazione principale è stata capire che cosa Giulia poteva mangiare senza rischi e che cosa no. Non è un'impresa facile, perché nemmeno i medici ti sanno dire se puoi comprare quel prosciutto cotto o quell'altro...

o se può prendere l'antibiotico normalmente prescritto ai bimbi quando hanno la tonsillite o il mal di gola. Il fruttosio si nasconde quasi dappertutto. I cibi proibiti sono già molti: qualsiasi tipo di frutta, tutte le verdure tranne patate e spinaci, le bevande zuccherate, i dolci. In più, ogni volta che fai la spesa, ti devi leggere le etichette, sei costretta a spiegare anche al panettiere che cosa ha tua figlia e perché gli fai quelle strane domande su come ha preparato una pizza o un salatino. E non so quante volte sono uscita ed esco ancora piangendo dai negozi. Ad aiutarti ci sono le associazioni che riuniscono i ragazzi malati di fruttosemia e i loro genitori, compagni di questa scomoda avventura. Più spesso, però, ti senti sola. Per un sacco di tempo sono andata avanti come un panzer, senza nemmeno il tempo di pensare all'aspetto psicologico, sia per la bimba sia per me. Poi è arrivata Elena. Io ero un vero gendarme in allerta, temevo che potessero dare alla bambina qualcosa che le facesse male, camomilla, acqua zuccherata, qualsiasi cosa che potesse sfuggire al controllo, nonostante le rassicurazioni del medico: «Signora, non si preoccupi, abbiamo avvisato tutto il personale del reparto.

E poi c'è il 25% di possibilità che da due genitori portatori sani arrivi un altro figlio affetto da fruttosemia, si può pensare positivo». Ma non è andata bene. Proprio alla vigilia di Natale, ero da una mia cara amica quando il dottore mi ha chiamata sul cellulare. «Signora, ci sono i risultati degli esami. Ce l'ha anche Elena». Ho pianto subito, ci sono rimasta molto male, quasi peggio della prima volta. Ero proprio triste, tanto che la reazione di mio marito mi ha fatto innervosire: «Dai in fondo è meglio, ce l'hanno tutte e due, così non fai distinzioni, e poi c'è molto di peggio nella vita...». Io in quel momento avrei voluto solo sentirmi dire che era una vera sfortuna. E sono dovuti passare anni prima che, finalmente, una psicologa me lo confermasse.Dal punto di vista pratico con Elena è stato tutto più facile, ero già preparata su molte cose, ma nel fondo del mio cuore mi sentivo triste e mi sembrava ingiusto. Ingiusto, se non altro, che nessuno sentisse il bisogno di consolarmi o di giustificare il mio dispiacere. E le cose non sono migliorate quando è arrivato il piccolo Matteo, l'unico senza problemi di fruttosio. Desideravamo un terzo figlio, era nei nostri progetti da sempre.

Quando abbiamo deciso di cercarlo, siamo andati in ospedale dal solito medico, volevamo sapere se ce lo sconsigliava. Ma lui ha detto che la patologia di Giulia ed Elena era compatibile con la vita, quindi non vedeva motivo di rinunciare al terzo figlio. Da parte nostra, abbiamo messo in conto che avrebbe potuto nascere come le sorelline: nel frattempo le bimbe, nonostante i divieti alimentari, crescevano bene. Appena nato Matteo, stessa trafila: subito i prelievi per gli accertamenti, e la lunga attesa. Quando ho saputo che era sano, ne sono stata felice per lui, ma ho pianto: era l'inizio della mia crisi. Mentre lo crescevo, mi rendevo conto di com'era tutto più facile con lui, meno stressante per me, che finalmente non su quello che poteva o non poteva mangiare, sulle cautele da prendere quando lo lasciavo a qualcuno, sull'esame capillare delle etichette che entravano nella dispensa. Un po' meno panzer, un po' più mamma, mi abbandonavo facilmente alle tenerezze. E il tarlo della preoccupazione per come sarebbe stata la vita sociale delle mie bimbe continuava il suo lavoro. È vero, non erano malate gravi, potevano vivere bene, ma io le vedevo comunque diverse dagli altri bambini.

Non potevo lamentarmi delle maestre, né delle altre mamme, che ormai conoscevano il loro problema, ma ero convinta che le mie figlie sarebbero sempre state svantaggiate dalla loro diversità.Mio marito la faceva facile, il medico anche, ma per me non era così. Di fatto non le lasciavo andare quasi da nessuna parte e solo di mia mamma avevo piena fiducia. Lestate seguente alla nascita di Matteo sono andata in montagna ospite con i bambini di una mia cara amica. A lei ho confidato le mie nuove paure, temevo che adesso le bimbe sarebbero rimaste male sapendo che il loro fratellino poteva mangiare tutto quello che a loro era proibito: fragole, torte, biscotti, gelati, coca cola, pasta al pomodoro! Mentre lo dicevo, sono scoppiata a piangere e lei mi ha spiegato che forse il problema era prima di tutto mio e che mi consigliava di andare a parlarne con una psicologa: «Devi farlo per te».Ci sono andata. Con la psicologa non cè stato un gran feeling, per la verità, eppure andare da lei mi è servito. Finalmente mi sono sentita dire che ero stata un po sfortunata e che, soprattutto, che avevo diritto e bisogno di dirlo a chiare lettere.

Mi ha spiegato che, se soffrivo io, avrebbero sofferto anche loro, perché adesso che erano piccole vivevano il loro problema nel modo in cui io glielo trasmettevo. Mi ha fatto bene parlarne. Mi è servito a capire che la mia grossa fatica è filtrare con il mondo esterno. Come quella volta, in montagna. Siamo entrati con unamica in pasticceria per chiedere se potevano farci una torta usando glucosio al posto dello zucchero comune. Abbiamo impiegato un quarto dora per spiegare al pasticciere come poteva fare, rendendoci disponibili a pagare di più il dolce, e, per tutta risposta, lui mi ha detto: «Signora, se sua figlia non può mangiare lo zucchero, si arrangi». E la scorsa Pasqua ho tentato di ordinare uova al cioccolato speciali, ma non cè stato verso neanche a pagarle oro. Per me sono tutti pugni nello stomaco, Filippo riesce ad arrabbiarsi, io solo a piangere come una fontana.A Giulia ed Elena abbiamo spiegato che i bambini non sono tutti uguali e che loro non possono mangiare gli zuccheri. Poi Filippo aggiunge sempre che ci sono anche quelli che non possono camminare, «e voi, tutto sommato, siete fortunate ».

Quando lo sento dire questa frase un pochino mi sento irrigidire dentro. La psicologa ci ha spiegato che arriverà un momento in cui le bimbe vivranno con disagio questo loro problema. Quando sarà, dovremo farle sfogare bene prima di cercare di consolarle. Poi dovremo cercare di fare vedere loro il lato positivo. È curioso, ma quando io e il papà mangiavamo la frutta, già da piccole le bimbe si sono sempre fatte avanti per imboccarci. Ora lo fanno con il fratellino, lo imboccano ogni volta che mangia qualcosa che a loro non è permesso. Forse così entrano in contatto con cibi che non possono assaggiare.Una volta allanno io e Filippo andiamo agli incontri dellassociazione: ora so che la mia testimonianza è utilissima ai genitori nuovi, che arrivano spaventati. Mi rivedo molto in loro e capisco quanti passi avanti ho fatto in questi anni. Certo, non sono mancati i piccoli incidenti. Il più grave è accaduto al battesimo di Matteo. Io avevo fatto una torta senza zucchero, con il cioccolato speciale che le mie figlie possono mangiare. Una cugina di Parma è arrivata con una torta identica, ma normale e i due dolci sono finiti sullo stesso tavolo, vicini.

Proprio unamica di quelle di cui più mi fido, attenta, carinissima, sensibile, ha dato una fetta a Elena, prendendo la torta sbagliata. La sera la bambina ha vomitato, prima ho pensato alle patatine poi lei mi ha detto di aver mangiato due fette di torta: come due, se io gliene avevo servita solo una? Ho telefonato alla mia amica e insieme abbiamo ricostruito laccaduto. Quella notte ho dovuto svegliare la bambina ogni due ore per darle il glucosio, ma poi tutto è andato a posto. Alle bimbe spiego ogni cosa da sempre, sanno che possono bere la Coca Cola con il tappo nero (quella senza zucchero). E ormai mi fido più di loro che degli adulti che le circondano. Leggere le etichette per loro è unabitudine acquisita: Giulia aveva appena tre anni e mezzo, quando, a una cena con tanti amici al ristorante, mi ha chiamato davanti a tutti per chiedermi se poteva mangiare i grissini. Io, infastidita e imbarazzata, ho detto un sì così poco convinto, che lei mi ha chiesto di nuovo: «Mamma, ma hai letto letichetta?».

In un certo senso non vedo l'ora che le bimbe siano grandi, non mi vergogno a pensarlo. Non vedo l'ora che si responsabilizzino da sole. Ammetterlo fa parte di un lavoro faticoso e lento su me stessa, che va di pari passo con la crescita delle mie figlie. Giulia ora ha cinque anni, inizia a soffrire della privazione. Pochi giorni fa è andata per la prima volta a cena da un'amica. Le ho dato la sua merenda dicendole di mangiare quella e niente altro e mi sono accordata con la mamma per il menu. L'aspettavo a casa, ammetto, non proprio tranquilla, ma il cuore mi si è riempito di gioia e ottimismo nel vederla tornare davvero felice. Allora ho capito che io, lei ed Elena eravamo sulla strada giusta.

Per saperne di più o chiedere un aiuto puoi rivolgerti a:
Aif, Associazione intolleranza al fruttosio, tel. 0815990917 Ammec, Associazione malattie metaboliche congenite, tel. 3497656574

Il testo è stato pubblicato sul n. 32 di Confidenze del mese di agosto

Fruttosemia: due figlie “diverse” ma anche felici

  • 06 08 2009

 

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