Storia del “mullet”, il taglio di capelli più brutto del mondo

Perché il “mullet”, l’improbabile acconciatura corta davanti e lunga dietro, riaffiori ciclicamente è un mistero. Ma la verità è che piace. Perché ci fa sentire un po’ ribelli

L’ultima è stata Rihanna, che addirittura l’ha scelto per promuovere una speciale collezione della sua linea di lingerie SavageXFenty, con un servizio fotografico pubblicato sul suo profilo Instagram. Ma RiRi non è l’unica popstar ad aver sfoggiato, senza vergogna alcuna, uno dei tagli dei capelli più controversi e dibattuti di sempre: il cosiddetto “mullet”, che porta con sé ricordi sfocati di rockstar degli anni ’70 dai look improbabili, a cui abbiamo guardato per lungo tempo con un sorriso (quasi di compassione) e anche con un certo imbarazzo. E invece il mullet è tornato per restare, anzi è l’hairstyle del 2021, dicono il quotidiano britannico Guardian e la rivista di moda Dazed & Confused. Così non sorprende (ma in realtà sì) che lo abbiano scelto la giovanissima cantante Billie Eilish, l’attrice di Game of Thrones Maise Williams, la modella Cara Delevingne e pure gli attori della serie tv di culto Euphoria Barbie Ferreira e Jacob Elordi. Millennial e Generazione Z sulle orme di Rod Stewart e Paul Young: chi lo avrebbe mai detto?

Qualcosa è cambiato nella percezione di questo sfortunato taglio di capelli che non sembra stare bene a nessuno, ma che ciclicamente ritorna,

seppur in versione riveduta e corretta (un tantino è migliorato, dai). In principio furono gli anni ’70 e David Bowie, ovviamente, nella versione aliena e color carota di Ziggy Stardust. Ma c’era stato anche Paul McCartney con i suoi Wings, la band che aveva formato nel 1971 assieme alla moglie Linda e a Denny Laine: via il taglio a scodella dei Beatles, troppo da bravo ragazzo, ed ecco il mullet ribelle e sperimentale, come la decade che stava per cominciare. Ma, va detto, prima di tutti era arrivato George Best, il più bello tra i calciatori di quegli anni, anche lui punto di riferimento per lo stile maschile, forse l’unico al quale il taglio donava per davvero. E poi eccoci agli anni ’80, che non finiscono mai di sferrare i loro colpi, e oltre al già citato Young, membro onorario del Club Mullet, quell’acconciatura la sfoggiarono: Patrick Swayze in Dirty Dancing, più corta e mascolina; James Hetflied dei Metallica; il cantante country americano Billy Ray Cyrus, il papà di Miley per la quale è forse un bel ricordo d’infanzia; Little Richard; e poi Cher e Jane Fonda, che non si sono mai tirate indietro su nulla, e le amiamo per questo.

Se sei del Sud, è probabile che il mullet riporterà alla mente quelli che tornavano al paese per le vacanze dopo essere emigrati in Germania o in Nord Europa,

e per i quali gli anni ’80 non sono mai finiti, vai a capire per quale strana commistione di sottoculture, tra ribellione punk, amore per il calcio o semplice cattivo gusto. I 10 anni successivi furono impietosi nei confronti di questo taglio: nel 1994 uscì “Mullethead” dei Beastie Boys che, cattivissimi com’erano, sfottevano senza pietà chi ancora lo riteneva un’opzione valida. Da allora il termine è diventato sinonimo di crimine da parrucchiere, il verdetto è rimasto scolpito nella pietra e per il mullet sono arrivati tempi bui: troppo vecchio, troppo cotonato, troppo New Romantic per gli anni ’90 minimalisti che vedevano emergere lo strapotere della cultura hip hop e dello streetwear afroamericani.

Colpo di scena: lo show del 2020 è stato Tiger King su Netflix, con protagonista quel Joe Exotic che ha il peggior mullet ossigenato,

e che ha fatto schizzare le ricerche Google su “Come fare il mullet” del 1.124% nel primo lockdown (rilevazioni di Cometify). L’hashtag #mullet al momento raccoglie quasi 760.000 post su Instagram e 1,6 miliardi di visualizzazioni su TikTok. Sarà che in quarantena tutti abbiamo sperimentato con i capelli, visto che parrucchieri e barbieri erano chiusi, ma forse questo taglio ha un significato più profondo di quello che gli abbiamo attribuito per lungo tempo. D’altronde si portava con fierezza anche nell’antichità, come documenta Alan Henderson nel suo libro Mullet Madness: abbiamo testimonianze della sua esistenza in tutte le grandi civiltà della storia, dai Romani ai Greci, dagli Assiri agli Egizi. Soprattutto, è stato uno dei tanti simboli dei movimenti di liberazione sessuale negli anni ’70: era il taglio di capelli androgino per eccellenza, mescolava lunghezze femminili e zazzere maschili, potevano farlo sia gli uomini sia le donne e raccontava di nuove identità sessuali, più fluide, più libere, meno inquadrate negli stereotipi di genere, come l’immortale Ziggy Stardust. Forse per questo, ci viene da pensare, piace tanto ai ragazzi di oggi, che nella fluidità si riconoscono felicemente. Ma resta il fatto che Rod Stewart aveva ragione. E lo abbiamo sempre preso in giro.

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